giovedì 10 maggio 2007

RIORDINO OSPEDALIERO di Bruno Marchi

“Osservatorio” del mese di aprile 2004

Da più parti, in posti diversi, la protesta, vibrata e convinta, avversa al piano di riordino ospedaliero voluto dalla Regione Puglia che, di fatto, ha portato alla chiusura di diversi ospedali, quello di Terlizzi il più noto alle cronache.

Impossibile non essere d'accordo e solidarizzare con quanti hanno avuto la sensibilità politica di organizzare il dissenso e di manifestare contro una decisione dissennata e crudelmente "aziendalistica". Il centrosinistra ha rivestito, in questa occasione, i panni (a dire il vero, dismessi da troppo tempo) di una opposizione di matrice popolare che tiene finalmente conto dei problemi concreti di chi, quotidianamente, si vede sottratti diritti e potere d’acquisto dei salari e degli stipendi, di chi deve “tirare la cinghia” fino alla fine del mese (sempre che abbia un’occupazione stabile) o di chi non ha nemmeno più la cinghia da stringere. Dov’è mai il miracolo berlusconiano che tanto ha “fascinato” gli elettori?

Il piano di riordino ospedaliero è la razionalizzazione di un servizio. Questa versione è stata contrabbandata e, a dosi minime, somministrata a coloro che avrebbero dovuto supinamente accettare simili scelte, almeno secondo i programmi dei generali regionali e dei caporali locali, di volta in volta assoldati, per spiegare alla truppa come stanno le cose.

Qui, comunque, non intendo portare ulteriori argomentazioni politiche, che hanno piena dignità e rilevanza, perché in tanti lo hanno già fatto e molto meglio di me. Vorrei, piuttosto, mantenermi nel cono d'ombra di alcune considerazioni prossime all'essenza della natura umana. Con ciò intendo dire che questa, ripeto, dissennata scelta di chiudere gli ospedali, riducendoli a pallidi rappresentanti della qualità e dell'utilità sociale che hanno sempre rivestito, ignora completamente la dimensione umana che, in occasione della sofferenza dovuta a malattia, assurge a livelli sicuramente prioritari.

In sostanza, chi ha operato tali scelte, tagliando con l'accetta territori e competenze, è senz’altro totalmente ignorante circa alcuni aspetti che hanno a che fare con la persona (oltre che con i diritti) intesa nella sua globalità. Facciamo il caso di un ammalato che, costretto da questo "piano di riordino ospedaliero", debba recarsi nel vicino comune, magari a “soli” quindici chilometri, per farsi curare. Cosa vivrà oltre alla “fisiologica traumaticità” di un ricovero ospedaliero? Con ogni probabilità vivrà anche un senso di estraneità sociale, culturale ed ambientale. Ciò comporterà assoluti ritardi nel processo di guarigione che necessita, stante dimostrate ricerche scientifiche in merito, di adesione emotiva ed "affetto" che però, a fronte di cotanta distanza fisica, scarseggeranno. L'ammalato potrebbe, pertanto, sentirsi ancora più solo, ancora più abbandonato alla sua patologia perché i parenti non potranno fargli visita con facilità, perché gli infermieri non parleranno il suo dialetto, perché attorno sentirà parlare di un paese che non è il suo, perché drammaticamente potrebbe vivere una specie di "isolamento antropologico".

Tale scenario (molto plausibile) è di segno contrario alla più moderna concezione della medicina intesa anche come “counseling” e “ascolto” del paziente, così come ben sintetizzato dal professor Fabio Folgheraiter, dell’Università di Trento: Se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare (facendo attenzione al contenuto razionale di tale consiglio, ossia che sia realmente sensato rispetto alla situazione) quanto piuttosto quello di aiutarla a comprendere la sua situazione e a gestire il problema prendendo da sola e pienamente le responsabilità delle scelte individuali.” In poche parole, piena responsabilizzazione del paziente ed attenzione alle sue scelte. Tale processo, che di per sé è già “terapeutico”, a me sembra sia piuttosto demolito da un approccio di tipo aziendale alla salute, dove l’ammalato è solo una cifra residente su un territorio tagliato fuori da certe logiche e penalizzato. Come potrà mai un paziente essere il protagonista di un percorso terapeutico, guidato dal medico, ovviamente, se costretto ad un territorio che non gli appartiene?

A scanso equivoci, vorrei chiarire che queste considerazioni fanno riferimento a quelle patologie che finora sono state curate presso gli ospedali locali e non certo a quelle che non potevano essere seguite (perché non c’erano i reparti specialistici) e per le quali, comunque, ci si rivolgeva ad altri nosocomi. Oggi, nei comuni penalizzati da questo piano di riordino, invece, si è costretti ad “andar fuori” anche per una appendicite o per una frattura e, addirittura, per nascere. Non c’è scelta, e allora dov’è la possibilità, per una persona, di “gestire il problema, prendendo da sola e pienamente le responsabilità delle scelte individuali”?

Queste scelte, a scapito della salute dei cittadini, sono di segno contrario alle nuove concezioni in materia di gestione della sanità: assistenza domiciliare integrata (ADI), ospedalizzazione domiciliare, assistenza domiciliare sanitaria e day hospital. Chi le ha operate è probabile che non le conosca e questo sarebbe grave, ma lo sarebbe ancor di più se le conoscesse. L’ignoranza, presunta o vera, gioca con la pelle (psichica e non solo) di quanti, già in situazione di difficoltà (altrimenti non andrebbero in ospedale) saranno costretti a vivere ulteriori difficoltà, derivanti dall'isolamento e dalla lontananza dal proprio ambiente culturale e sociale.

L'aziendalizzazione, la razionalizzazione, di questi servizi (che possono essere assimilati ai cosiddetti "servizi alla persona") conduce, dritto dritto, alla negazione della sofferenza in quanto tale, come se tutto potesse essere guarito solo perché c'è qualche medico che ti gira attorno. Purtroppo non è così, magari lo fosse. Piuttosto è vero che la "guarigione" scaturisce anche da una "holding" (nel senso di ambiente psicologico d'accoglimento e di contenimento della sofferenza) che è costruita soprattutto dai parenti e da quanti possono "fare un salto" in ospedale per andare a trovare la persona ammalata. Si sa, medici ed infermieri, che già tanto impegno profondono, assolvono solo in minima parte a questo compito, oberati come sono dal carico lavorativo della corsia. La scelta da fare avrebbe dovuto essere orientata verso un’integrazione, sanitaria e sociale, tra gli aspetti del curare e quelli del prendersi cura e non verso la loro scissione. Tagliare, ricucire e prescrivere antibiotici soltanto o, piuttosto, offrire all’ammalato anche la possibilità di essere ascoltato ed assistito, secondo regole condivise ed entro i canoni della humana pietas?

In occasione dell'assemblea generale annuale della World Medical Association, che si è tenuta ad Helsinki all'inizio di settembre, è stato presentato uno studio internazionale sul rapporto medico-paziente, che ha evidenziato come, in tutti i Paesi, questa particolare relazione umana abbia ancora una posizione centrale, però collocandosi per importanza al secondo posto, dopo quella con i familiari. Già, dopo quella con i familiari!

Ai governanti di questa regione (ed a quanti politicamente li hanno sostenuti) sembra cosa da niente il rapporto con i familiari. Forse non sanno, e qui lo si è detto a più che chiare lettere, che è proprio questo rapporto che sostiene la terapeuticità dell'intervento medico. I nostri governanti, regionali e locali, conoscono bilanci e conti da far quadrare (forse), ma dubito che si pongano il problema di chi in ospedale, con ansia, attende che un familiare, un amico si rechi a trovarlo. Si dirà, per puro spirito di contraddizione, che oggi i mezzi di comunicazione sono veloci, forse. Ma provate a dirlo ad un anziano che voglia dare alla moglie ricoverata amorevole assistenza, per quel che gli è possibile.

Attenzione alla persona, ecco quello che è mancato. Sarebbe bastato valorizzare la dignità umana per evitare questo inutile spreco di risorse e i danni che ne deriveranno.

Politica di vecchio stampo o neo-umanesimo? A cosa riferirci quando parliamo di malattia e sofferenza?"

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