giovedì 10 maggio 2007

POLITICHE SOCIALI, NUOVA LEGGE MA OCCORRONO ANCHE I FONDI di Bruno Marchi

la Repubblica” del 18 aprile 2004


Il problema, come sempre del resto, è quello di collegare le sollecitazioni provenienti da questo strumento legislativo con una visione ‘trasversale’

La legge numero 328 del 2000 e le legge regionale numero 17 del 2003 segnano, senza ombra di dubbio, un viraggio nella concezione dell’assistenza puntando alla integrazione e coordinamento dei servizi che erogano prestazioni sociali.

Nonostante alcune polemiche in corso e il senso di “grandi affari” che la gestione di questo settore, comunque, può destare (indipendentemente da chi questi “grandi affari” penserebbe di farli e da chi invece sospetta che si facciano), è piuttosto oggettivo il ritardo con il quale la riforma di questo settore avanza in Puglia.

Le responsabilità sono diverse e non facilmente esplicitabili o riconducibili tout-court al piano politico. E’ opinione di chi scrive, che l’ambito sia così complesso e delicato, per il non trascurabile aspetto che riguarda la persona umana, da renderne inevitabilmente rallentata l’evoluzione. Si spera che questo rallentamento sia occasione di approfondite ed opportune riflessioni, nonché foriero di adeguate risposte.

Ma, è anche possibile che detta lentezza sia causata da una ancora diffusa sottocultura, riferita al sociale, legata a dinamiche di natura assistenziale relativamente moderne. In altre parole, sul piano tecnico e politico spesso si continua a pensare alle singole persone (siano essi minori, disabili o anziani, per citare solo alcune categorie di cittadini che possono andare incontro a situazioni di disagio) come ad un problema di collocamento (“Dove lo metto? Quale istituto potrà mai accogliermelo?) ed amministrativo (“Ci sono i soldi per pagare la retta?”) di non sempre facile soluzione anche perché, di solito, i “casi sociali” sono poco programmabili ed hanno carattere d’urgenza, se non d’emergenza.

La sottocultura dell’assistenzialismo, secondo me ha molto a che fare con una concezione parcellizzata della persona umana e dei suoi bisogni. Un povero, un soggetto socialmente debole e fragile, a causa della parcellizzazione dei suoi bisogni, ancora oggi viene privato della propria unità di personalità. Per esempio, il bambino o l'adolescente (così come il disabile e l’anziano fragile) da difendere e proteggere, viene molto spesso parcellizzato in una lunga serie di relazioni assistenziali - dal suo punto di vista sicuramente coatte - sin da quando ha inizio la sua “carriera” di bambino difficile o deviante: gli insegnanti, che segnalano le difficoltà d'apprendimento e di <>; gli assistenti sociali, che intervengono sulla dimensione familiare per quel che riguarda gli obblighi (igienico-sanitari, di assistenza, ecc.); gli psicologi, che spesso si <> della diagnosi perché solo in qualche raro caso, nelle strutture pubbliche sono nelle condizioni di poter curare; i pedagogisti, alla costante ricerca delle adeguate strategie educative; gli educatori delle strutture psicopedagogiche, ai quali, nella maggior parte dei casi, non resta che tentare di <>, ma senza sufficienti strumenti, le difficoltà; i giudici minorili, attenti alla applicazione della legge; gli organi di polizia, che hanno il compito di reprimere e l'elenco potrebbe continuare o potrebbe esserne stilato uno per ogni categoria.

Inoltre, se da sempre le radici sociali e politiche della miseria sono state analizzate in una logica assistenziale, che era quella di “occultare la questione politica della povertà e far tacere la voce dei poveri”, citando Robert Castel, come si può pensare che in un breve volgere di tempo si verifichi una trasformazione culturale di rilievo? Ciò, comunque, non significa che il cambiamento sia impedito. Occorrerebbe, ad ogni latitudine politica, disvelare i meccanismi che occultano “la questione politica della povertà” e porsi oltre i confini sia dell’assistenzialismo vecchia maniera e sia del più moderno “tecnicismo sociale”, per favorire un approccio maggiormente integrato alla persona in stato di difficoltà, un approccio meno parcellizzante.

In tal senso la legge per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, la 328 del 2000, appunto, uno sforzo pare compierlo. Il problema, come sempre del resto, è quello di coniugare le sollecitazioni provenienti da questo strumento legislativo, pure importante e significativo, nonostante sia giunto con un ritardo di almeno vent’anni, con una visione “trasversale“ della problematica sociale in quanto tale. Cioè, occuparsi del disagio (e della povertà, aggiungerei) oltre i limiti posti dalle bandiere ideologiche (se mai ancora ve ne fossero) e di fazione.

Ma, purtroppo, temo che questi vessilli vengano agitati affinché il loro drappeggio nasconda la pochezza degli interventi e la loro risibilità, soprattutto nel momento in cui si alzano le mani, o si fa spallucce, ma è la stessa cosa, per dire “non ci sono soldi”. Perché è proprio questo lo scoglio contro il quale si infrangono anche le migliori leggi e le altrettanto migliori intenzioni di amministratori ed operatori. Tanto si dovrebbe fare, tanto si vorrebbe e potrebbe fare, ma la graduale riduzione delle spese sociali viene sbandierata, letteralmente a destra e sinistra, per occultare, ancora una volta, la crisi di idee e la crisi della stessa concezione della persona umana, sempre più frequentemente ridotta a merce di scambio politico (si fa per dire) ed oggetto di polemiche che si attardano e attorcigliano su sé stesse non avvedendosi che i “bisognosi” aumentano giorno per giorno.

Ovviamente si tratta di scelte di fondo di non scarsa rilevanza. “Investire” sulla persona, per esempio un adolescente a rischio di devianza, significa non solo fare prevenzione nelle sue varie articolazioni, ma anche evitare che in futuro questa persona, cronicizzando il suo disagio, diventi tossicodipendente o detenuto o paziente psichiatrico, con “spese sociali” di almeno quattro volte superiori da sostenere e con scarse possibilità di riabilitazione piena. Pertanto, non solo prevenzione ma anche “prognosi” sociale.

La mia quotidiana esperienza professionale, da vent’anni a questa parte, pur registrando lievi miglioramenti nella complessiva qualità dei servizi sociali regionali, annota che i conti si devono fare con bilanci comunali, cioè con la realtà, sempre più risicati in questo settore. Oltre a determinare il blocco di alcune iniziative questa situazione determina un certo scadimento qualitativo. Di conseguenza, sempre più spesso, ci si nasconde, pur di dire che “qualcosa s’è fatto”, dietro il dito di interventi arrangiati, perché a basso costo, improvvisati e quasi mai verificati nella loro riuscita, dimenticando (o, in molti casi, non sapendolo affatto) che alcune opportunità sono state offerte. Per esempio, l’Unione Europea per anni ha finanziato iniziative specifiche e specialistiche, soprattutto in ordine alla prevenzione primaria e secondaria, che però in Puglia non sono state colte perché il livello richiesto della qualità, già in fase di progettazione, era molto alto. Ovvero queste possibilità, se attivate, sono state vanificate dalla stessa sottocultura di cui prima dicevo, questa volta, però, applicata alla “logica” del finanziamento fine a se stesso, cioè alla spartizione secondo le clientele del momento.

Una risposta, nonché una opportunità da non perdere, ritengo sia data dalla applicazione regionale della legge 328 che, è appena il caso di ricordare, non riguarda soltanto la riforma delle IPAB, purché si tengano presenti alcuni cardini, non già una banale ricetta, sui quali poggiare l’intero impianto: formazione, alta formazione ed aggiornamento continuo degli operatori; qualità, monitoraggio e verificabilità scientifica degli interventi; attenzione alla persona in situazione di disagio ed alla sua realtà mentale spesso non sufficientemente adeguata ed evoluta.

1 commento:

Anonimo ha detto...

You write very well.