giovedì 10 maggio 2007

INVIATO A "LA REPUBBLICA"

Inviato a “la Repubblica” il 3 gennaio 2007 e non pubblicato



di Bruno Marchi

Giocare a “guardie e ladri” e morirci, questo no! Un bambino è morto, ha lasciato lì, sull’asfalto di un’arida periferia, sempre più lontana dalle luci del centro, una vita appena accennata, quella che è riuscito a godere in tredici anni.

La caccia alle streghe delle responsabilità, il mea culpa, la ricerca di cause e le analisi danno il voltastomaco soltanto a leggerle, uguali tra loro già prima di Enziteto e Giovinazzo. La loro inutilità è amplificata dall’assistente sociale morto accoltellato dal minorenne che aveva in affidamento o da tutti quegli operatori che quotidianamente, pur non rischiando la vita, sono esposti ad elevati tassi di sofferenza sociale e psichica senza alcuna protezione.

Cos’ha di credibile la chiamata a correo delle varie istituzioni, dallo Stato al Comune o alla Regione, dalla Chiesa all’Università, se i bambini continuano a morire per strada o stritolati dall’indifferenza e dal vuoto di cultura per l’infanzia e l’adolescenza? A cosa aggrapparci, noi adulti, per tentare di alleggerire il fardello della colpa di avere realizzato una scuola sempre più svuotata di contenuti e punti di riferimento o una società televisiva fatta di lustrini e miraggi pubblicitari?

La povertà dei quartieri è celata allo sguardo mediatico perché infastidisce, perché convoca a riflessioni urgenti alle quali, comunque, si è costretti quando, come si dice, balza agli onori delle cronache. Ma poi tutto passa, c’è la festa e le nostre città diventano le capitali nazionali del divertentismo, per la gioia degli spacciatori di alcol anche ai minorenni, notizie di questi giorni.

Lo sforzo di essere onesto, compiuto da ogni bambino nato in taluni quartieri, è sovrumano perché continuamente vanificato dalla seduzione di certi modelli ai quali sente di dovere aderire per sopravvivere. Il Ministro dell’Interno Giuliano Amato recentemente ha indicato nelle canzoni napoletane, dei cosiddetti cantanti neomelodici, uno dei canali di diffusione della cultura camorristica. Se questo fosse un parametro, dovremmo anche noi interrogarci su quanta “musica napoletana” si consuma al San Paolo di Bari o al Paolo VI di Taranto o, ancora, al Paradiso di Brindisi.

Io, più semplicemente, credo che la cultura dell’illegalità si diffonda anche perché non trova alcun argine, nessun ostacolo. Perché, fino a quando i bambini e gli adolescenti saranno costretti a fagocitare la sub-cultura televisiva o quella dell’arrivismo, il modello camorristico o mafioso sarà sempre più forte, verosimile e, soprattutto, più vicino ai suoi fruitori. Ma non è assolutamente detto che agli stessi ragazzi piaccia. Tempo fa, colloquiando con un sedicenne, autore di rapina a mano armata, incautamente chiesi perché frequentasse certe amicizie. Mi guardò esterrefatto, giustamente, e mi rispose che lui poteva avere solo quel genere di amici ma non è che ne fosse fiero.

Il furto, la rapina o la violenza, dunque sono segnali d’angoscia, grida che si strozzano in gola, mentre il motorino va a tutta velocità per la città. Sono pesanti denunce politiche che fanno, storicamente, il paio con altre urla che tanti anni fa altri ragazzi hanno scandito nei cortei, convinti com’erano che avrebbero cambiato le cose. Quegli stessi ex-ragazzi che oggi governano, ma che afflitti da miopia politica non riescono a mettere a fuoco il bambino o il ragazzo di periferia, convinti come sono che il problema e la soluzione siano soltanto strutturali e di fondi che mancano. Io credo che in politica in generale e nelle politiche per i minori in particolare, quello che scarseggia sono l’entusiasmo e il guizzo “rivoluzionario” (si può ancora dire?) perché si sono infranti contro la gestione burocratica della cosa pubblica e appiattiti in una ordinaria amministrazione dell’emergenza.

Nessun commento: