giovedì 10 maggio 2007

INVIATO A "LA REPUBBLICA"

Inviato a “la Repubblica” il 15 aprile 2007 e non pubblicato

di Bruno Marchi

In tante città italiane, anche pugliesi, sono in aumento i comportamenti suicidari tra gli adolescenti, così come gli episodi che denunciano la loro aumentata fragilità, compresi gli atti del cosiddetto bullismo. Gli interrogativi e le, seppur parziali, risposte che si possono articolare sono tra i più vari. Molto è stato detto e molto si dirà, e ciò non assicura che contribuirà ad una riduzione del fenomeno. Eppure bisogna parlarne per occuparsene, bisogna comprendere per cambiare.

Il piano di riflessione, pertanto, non può che essere il punto di incontro tra aspetti sociali (per cui, anche economici e culturali) e psicologici (per cui, anche psicopatologici).

Pare si sia persa la capacità contenitiva e, in fondo, regolativa della crescita degli adolescenti: ecco, tra le tante, quale potrebbe essere una causa della fragilità emotiva dei nostri ragazzi.

Nel passato le istituzioni (lo Stato, la scuola, la famiglia e la Chiesa) erano salde nella loro proposta normativa. Erano ben sintonizzate tra loro nella proposta educativa, per cui l’adolescente che “deviava” dal percorso tracciato dagli adulti, poteva essere rimesso in carreggiata, a volte anche attraverso sanzioni. Non c’era discrasia tra un’istituzione e l’altra nel considerare la giustezza dell’eventuale provvedimento adottato. Qualche piccolo esempio. Quando le strade erano piene di bambini che giocavano al calcio, la grande paura, soprattutto del suo proprietario, era che si trovasse a passare un vigile, o un carabiniere, e sequestrasse il pallone, perché non si poteva giocare per strada, magari scattava anche una multa. Oppure, durante l’estate c’era la cosiddetta “controra”, cioè quella fascia pomeridiana della giornata nella quale non si poteva stare per strada a giocare e schiamazzare perché la maggior parte delle persone riposava. Anche qui i contravventori potevano essere sanzionati. Infine, il ragazzino mandato a bottega durante l’estate perché impegnasse il tempo ad imparare qualcosa di utile a volte era sgridato, ma non solo, dal maestro artigiano. Qualora si fosse recato dal padre a chiedere giustizia, nella maggior parte dei casi riceveva il resto perché il genitore incondizionatamente, di solito, dava ragione al maestro. E così nei confronti della scuola e di chi altri si occupava dei figli. Ovviamente questa non è un’apologia della sanzione, ciò che intendo dire riguarda la possibilità che tale atteggiamento da parte degli adulti offriva all’adolescente il disegno di una cornice, di alcuni limiti, che lo aiutavano ad orientarsi meglio nella realtà sociale che cominciava ad affrontare emotivamente più saldo, perché saldi erano i modelli di riferimento.. La solidarietà tra adulti, inoltre, consentiva ai bambini e agli adolescenti di introiettare modelli di comportamento sociale omogenei tra loro, in quanto i messaggi non erano contraddittori. Esistevano, comunque, anche le figure educative consolatorie e tolleranti (in genere le madri o altre donne della famiglia) che garantivano al bambino o al ragazzo la riparazione emotiva o l’elaborazione della frustrazione.

Oggi, invece, tra bulli e pupe televisive e reali, tra genitori che picchiano insegnanti per un cellulare, tra omofobie e sessualità spesso solo apparentemente ben definita, tra concorsi per fare la velina o per essere eletta miss di quartiere, il patto tra famiglia e realtà sociale si è frantumato. Ogni istituzione ha i suoi bei problemi ed in questo loro lento e inesorabile sfaldamento, per evitare il quale la soluzione pare essere quella di erigere muri ideologici o provvedimenti d’urgenza, agli ultimi posti viene relegato ciò che, probabilmente, alle ragazze e ai ragazzi servirebbe davvero: l’ascolto.

La mia sensazione è che ascoltiamo molto poco gli adolescenti, diamo alle loro esigenze emotive troppo poco spazio. Anche quando ciò dovrebbe essere una funzione istituzionale, accade che l’ascolto sia offerto in condizioni di fortuna (basti pensare alla sede del Tribunale per i Minorenni di Bari) o insufficienti (mi riferisco al fin troppo scarso numero di psicologi impegnati nelle scuole). Ascoltare davvero gli adolescenti significherebbe mettere in moto una dinamica di crescita non più legata ai modelli educativi del passato, che ormai e, in parte per fortuna, non ci sono più, bensì al diritto di ogni ragazzo di trovare una salda cornice affettiva di riferimento con la quale confrontarsi.

STRAGI DEL SABATO SERA E POLITICA di Bruno Marchi

Pubblicato su FasanForum


Le stragi di giovani che si consumano il sabato sera e la politica italiana, quale legame potranno mai avere? Non mi riferirò a considerazioni relative ai tentativi, o alle inadempienze, delle istituzioni, finalizzate a limitare o, meglio, evitare questa tragedia. Nemmeno alle campagne di sensibilizzazione che invitano, soprattutto i giovani, alla prudenza sulla strada e neanche alla educazione stradale che, in un modo o nell’altro, nelle scuole si propone. Le mie considerazioni riguardano il rapporto culturale e generazionale tra i giovani e i tanti politici anziani che affollano i banchi delle istituzioni repubblicane.

Occorre una premessa. Il comportamento di rischio (nel senso di correre il rischio) è tipicamente adolescenziale. Per molti ragazzi e ragazze, i cambiamenti psichici e corporei, caratteristici dell’età, sono interiormente e, spesso, inconsapevolmente vissuti con un senso di frammentazione emotiva. Certo, questa frammentazione, più vicina alle culture occidentali, è temporanea ed è finalizzata ad un successivo passaggio verso una unitarietà, verso una ricomposizione, si può anche dire, della personalità che darà luogo, soprattutto, ad una “nuova” identità, quella adulta. In questo frangente della vita, che tutti attraversano, la tempestosità e gli impeti, siano essi ideali o agiti, diventano il luogo entro il quale l’adolescente si muove alla ricerca di una identità e interezza. Da qui, in assenza di punti di riferimento forti, che diano senso e contengano il “Sé” frammentato, la quasi necessità di assumere stili di vita (dalla droga all’alta velocità) che facciano sentire vivi e interi. Evidentemente, tale processo oggi è massicciamente influenzato dalle sollecitazioni culturali che impongono modelli comportamentali spesso anticipatari rispetto alla reale evoluzione psichica, fisica e sociale, per cui sempre più frequentemente si osservano, in dodicenni o tredicenni, comportamenti che, magari qualche anno fa, appartenevano più a ragazzi e ragazze più avanti con gli anni. A ciò concorrono, rispetto al passato, una serie di fattori quali le maggiori stimolazioni che i bambini ricevono o una migliore alimentazione, per cui il sistema nervoso, nella sua plasticità, all’apparenza sembra crescere un po’ più in fretta.

D’altro canto, la dimensione adolescenziale - non più fisica, evidentemente, bensì soprattutto sociale e, in più di un caso, psichica - si prolunga fino ai venticinque anni e oltre, per arrivare, non è raro, alla soglia dei trenta. Ciò è determinato, soprattutto, da fattori economici e sociali che provocano una dipendenza oggettiva dal nucleo familiare e una altrettanto oggettiva difficoltà a lasciare il nido. Da qui la “novità” di ritrovarsi tra le lamiere delle auto carbonizzate giovani/adolescenti tra i venti e i trenta anni di età.

Tra i fattori di “ritardo evolutivo” aggiungerei, quasi fosse una postilla e venendo al dunque di questo contributo, lo spostamento in avanti dell’età dei politici italiani e la loro inamovibilità dagli incarichi istituzionali che, oltre a impedire l’affermarsi dei quarantenni e dei cinquantenni, che senz’altro apporterebbe una boccata d’aria fresca, inavvertitamente lanciano ai più giovani un messaggio piuttosto chiaro di cristallizzazione di segno contrario a quello di un fisiologico e salutare avvicendamento generazionale. Ciò non solo sul piano istituzionale e politico, ma anche su quello culturale ed economico nonché, più in generale, antropologico. Insomma, questa abbondanza di “nonni”, che fa piacere vedere ancora attivi e non esclusi dai momenti forti della vita (basti pensare al senatore a vita Andreotti che, a quasi novanta anni, ha contribuito a causare l’ultima crisi di governo), a mio avviso determina un irrigidimento delle posizioni e fornisce una sorta di alibi, culturale e sociale, di una presunta eterna, immobile, giovinezza. Largo ai giovani, dunque? Sì, ma senza demagogia e includendo l’anziano con il suo contributo d’esperienza e saggezza.

INVIATO A "LA REPUBBLICA"

Inviato a “la Repubblica” il 3 gennaio 2007 e non pubblicato



di Bruno Marchi

Giocare a “guardie e ladri” e morirci, questo no! Un bambino è morto, ha lasciato lì, sull’asfalto di un’arida periferia, sempre più lontana dalle luci del centro, una vita appena accennata, quella che è riuscito a godere in tredici anni.

La caccia alle streghe delle responsabilità, il mea culpa, la ricerca di cause e le analisi danno il voltastomaco soltanto a leggerle, uguali tra loro già prima di Enziteto e Giovinazzo. La loro inutilità è amplificata dall’assistente sociale morto accoltellato dal minorenne che aveva in affidamento o da tutti quegli operatori che quotidianamente, pur non rischiando la vita, sono esposti ad elevati tassi di sofferenza sociale e psichica senza alcuna protezione.

Cos’ha di credibile la chiamata a correo delle varie istituzioni, dallo Stato al Comune o alla Regione, dalla Chiesa all’Università, se i bambini continuano a morire per strada o stritolati dall’indifferenza e dal vuoto di cultura per l’infanzia e l’adolescenza? A cosa aggrapparci, noi adulti, per tentare di alleggerire il fardello della colpa di avere realizzato una scuola sempre più svuotata di contenuti e punti di riferimento o una società televisiva fatta di lustrini e miraggi pubblicitari?

La povertà dei quartieri è celata allo sguardo mediatico perché infastidisce, perché convoca a riflessioni urgenti alle quali, comunque, si è costretti quando, come si dice, balza agli onori delle cronache. Ma poi tutto passa, c’è la festa e le nostre città diventano le capitali nazionali del divertentismo, per la gioia degli spacciatori di alcol anche ai minorenni, notizie di questi giorni.

Lo sforzo di essere onesto, compiuto da ogni bambino nato in taluni quartieri, è sovrumano perché continuamente vanificato dalla seduzione di certi modelli ai quali sente di dovere aderire per sopravvivere. Il Ministro dell’Interno Giuliano Amato recentemente ha indicato nelle canzoni napoletane, dei cosiddetti cantanti neomelodici, uno dei canali di diffusione della cultura camorristica. Se questo fosse un parametro, dovremmo anche noi interrogarci su quanta “musica napoletana” si consuma al San Paolo di Bari o al Paolo VI di Taranto o, ancora, al Paradiso di Brindisi.

Io, più semplicemente, credo che la cultura dell’illegalità si diffonda anche perché non trova alcun argine, nessun ostacolo. Perché, fino a quando i bambini e gli adolescenti saranno costretti a fagocitare la sub-cultura televisiva o quella dell’arrivismo, il modello camorristico o mafioso sarà sempre più forte, verosimile e, soprattutto, più vicino ai suoi fruitori. Ma non è assolutamente detto che agli stessi ragazzi piaccia. Tempo fa, colloquiando con un sedicenne, autore di rapina a mano armata, incautamente chiesi perché frequentasse certe amicizie. Mi guardò esterrefatto, giustamente, e mi rispose che lui poteva avere solo quel genere di amici ma non è che ne fosse fiero.

Il furto, la rapina o la violenza, dunque sono segnali d’angoscia, grida che si strozzano in gola, mentre il motorino va a tutta velocità per la città. Sono pesanti denunce politiche che fanno, storicamente, il paio con altre urla che tanti anni fa altri ragazzi hanno scandito nei cortei, convinti com’erano che avrebbero cambiato le cose. Quegli stessi ex-ragazzi che oggi governano, ma che afflitti da miopia politica non riescono a mettere a fuoco il bambino o il ragazzo di periferia, convinti come sono che il problema e la soluzione siano soltanto strutturali e di fondi che mancano. Io credo che in politica in generale e nelle politiche per i minori in particolare, quello che scarseggia sono l’entusiasmo e il guizzo “rivoluzionario” (si può ancora dire?) perché si sono infranti contro la gestione burocratica della cosa pubblica e appiattiti in una ordinaria amministrazione dell’emergenza.

BULLISMO ED EMULAZIONE di Bruno Marchi

“il Menante” del 7 dicembre 2006

Minori a rischio. L’opinione di Bruno Marchi.


Una volta c'era Pierino. Ve li ricordate i film con Alvaro Vitali che passava le giornate a fare scherzi, non sempre innocenti in realtà, ai propri compagni di classe e ai professori? Le professoresse poi erano le sue vittime preferite. Quanti di noi non hanno in mente l'immagine di Pierino che spiava dal buco

della serratura la ignara e provocante maestrina mentre si denudava. Certo erano altri tempi, oggi il buon vecchio Pierino è stato sostituito dall' “isola dei famosi” piuttosto che da “la pupa e il secchione”, programmi televisivi che si fondano sul voyeurismo e sulla ipocrita irrisione del più debole, del diverso.

Erano altri tempi quando colui che irrideva i compagni lo faceva con innocenza, forse anche con un po' di volgarità ma comunque in maniera genuina, quando il bullo era Alvaro Vitali: basso, brutto e pure sfigato. Oggi i bulli spesso sono i fighetti, quelli che una volta si chiamavano “figli di papà”, ragazzi

tanto annoiati che trovano esaltante filmare per poi diffondere sulla rete le immagini di una violenza su un disabile piuttosto che su una propria compagna di classe. Ma se gli scherzi a scuola sono sempre esistiti, e ciascuno di noi ne è stato artefice, spettatore o vittima almeno una volta nella propria vita, allora perché sembra che il problema sia nato solo ora. Per capirci di più abbiamo incontrato Bruno Marchi, psicologo che da anni si occupa di minori a rischio.

Il fenomeno chiamato bullismo non sarà per caso un'invenzione mediatica?

“Certamente i giornali e le televisioni se ne stanno occupando tanto quanto si sono occupati dell'aviaria, di cui oggi non sentiamo più parlare. E' un modo per riempire le prime pagine dei giornali ed i dibattiti televisivi. Di fatto però il bullismo c'è anche se non è un problema legato a questi ultimi anni. In Italia il fenomeno della goliardia è sempre esistito sia nelle università che nei licei, soltanto negli anni '70 le divisioni politiche hanno preso il posto degli scherzi goliardici, ma negli anni successivi le cose sono tornate pressappoco come prima. Credo che siano fondamentalmente due le cose che cambiano tra la vecchia forma di bullismo e quella a cui assistiamo oggi: innanzitutto la qualità degli scherzi, perché spesso quelli che arrivano agli onori della cronaca sono scherzi parecchio violenti avendo spesso come vittime soggetti svantaggiati, in secondo luogo il fatto che questi atti, grazie ai nuovi mezzi come i videofonini ed Internet, vengono divulgati fuori dalla scuola, mentre una volta rimanevano circoscritti nell'ambito scolastico. Oggi quegli scherzi vengono filmati ed immessi sulla rete, in modo che chiunque in qualsiasi parte del mondo li potrà vedere. Il problema è che una volta entrati nei programmi di condivisione file diventa impossibile ritirarli, ma qui si apre una problematica ampia, legata alla privacy, che riguarda soltanto in parte gli ultimi fatti di cronaca. Credo quindi, ritornando alla domanda, che in fin dei conti i casi del cosiddetto bullismo di cui oggi si parla siano stati amplificati dai

media, ed in questo senso credo che il rischio maggiore che si possa correre sia quello dell'emulazione, così com' è accaduto con il fenomeno dei sassi dal cavalcavia.”

A conti fatti quindi le nuove forme di bullismo hanno compiuto un salto di qualità verso comportamenti sempre più violenti che spesso travalicano ogni limite etico; non ci si diverte più semplicemente, come faceva Pierino, oggi si mira ad umiliare profondamente l'altro fino ad annientarlo.

Loredana Monopoli

MORTI DI HINA E PALMINA, UN ERRORE ACCOMUNARLE di Bruno Marchi

la Repubblica” del 1 settembre 2006

Anche la Maraini è incorsa nei soliti pregiudizi sul Sud, come avvenne all’epoca dell’omicidio della quattordicenne

Sul Corriere della Sera, del 15 agosto scorso è possibile leggere un articolo che titola “La ragazza pachistana e l’abitudine globale di perseguitare le donne”, a firma di Dacia Maraini. L’occhiello recita: “Orrori come quello di Brescia non sono esclusiva del mondo musulmano”. Si tratta di un commento a proposito dell’omicidio della giovane Hina in quel di Brescia. Il testo sviluppa un ragionamento, condivisibile, riguardante l’oppressione che molte donne, in varie parti del mondo, ancora subiscono a causa di motivi religiosi, ma non solo, con particolare riferimento alle donne musulmane. Ad un certo punto l’articolo vira sulla situazione occidentale e italiana. Cosa trova di meglio la signora Maraini, intellettuale toscana ma da anni residente a Roma, se non andare a ripescare nella sua memoria femminista il caso di Palmina Martinelli, la quattordicenne bruciata viva a Fasano di Brindisi perché, così è stato acclarato dalle indagini della magistratura, rifiutava di prostituirsi?

L’articolo prosegue con un vago accenno al delitto d’onore e con le rituali conclusioni, vagamente politicizzate.

Il perché di questo mio intervento sta tutto nella seguente perplessità: ma dal 1981, cioè in venticinque anni, in tutta Italia – considerato che la nota intellettuale teneva a questo confronto tra Islam e Occidente – davvero non si è verificato alcun fatto di cronaca nera utile alle sue argomentazioni?

Chi scrive - proprio dalla città della ragazza arsa viva - già all’epoca pubblicamente denunciò le deformazioni che i mass-media avevano operato in ragione dei soliti luoghi comuni e pregiudizi sul meridione. Ricordo, per esempio, che i servizi dei telegiornali RAI furono montati in maniera tale che della piazza di Fasano si vedesse solo lo scorcio laddove campeggiava il cartellone di un cinema a luci rosse, colpevolmente omettendo i cartelloni di altre tre sale teatrali e cinematografiche (sì, ce n’erano ben quattro, in un’epoca in cui nei paesi del comprensorio non ve n’era nemmeno una). Non fu detto che le sale cinematografiche trasmettevano film “d’essai” ed erano allestite dignitosissime stagioni teatrali a prezzi modici, così come fu taciuto che la Biblioteca Comunale contava su un catalogo di migliaia di volumi, e l’elenco potrebbe continuare.

Mi chiedo, perché andare a ripescare un fatto di cronaca risalente a un quarto di secolo fa quando, nel frattempo, purtroppo, altrettanto efferati delitti, in tutta Italia hanno visto vittime delle donne? Mi sembra che anche l’intellettuale di turno (e nel giorno di Ferragosto, si sa, è pure un po’ fastidioso essere di turno) abbia peccato in superficialità e fretta, o forse sia stata presa da una sorta di distorsione antropologica, tanto quanto capitò a giornali e televisioni, interessati com’erano a fornire un conciliante quadretto farcito di pericolose generalizzazioni e pregiudizi, del tipo mafia e spaghetti.

Certo, a Fasano i problemi all’epoca non mancavano e tuttora non mancano, lo testimoniano anche le relazioni della Commissione Antimafia di qualche anno fa. Ma da qui a lanciare la sottile idea che la città possa essere paragonata a zone del mondo molto più povere e sfortunate, nonché culturalmente differenti sebbene, naturalmente, con pari dignità e importanza, ce ne corre. Il Sud dell’Italia non è l’Islam e l’Islam non è il Sud, perché creare confusione?

Interventi come quello della signora Maraini paiono testimoniare una ancora scarsa integrazione culturale tra Nord e Sud del Paese, e allora come mai potrà essere condotta la già difficile integrazione con le altre culture che stanno avvicinandosi a noi?

MANDIAMO I GENITORI A LEZIONE DI LEGALITÀ di Bruno Marchi


la Repubblica” del 22 novembre 2006

Se dinanzi al bullismo è evidente il fallimento della scuola, bisogno ripensare soluzioni per educare al rispetto del valore e delle leggi.

Le vicende che in queste ultime settimane vedono coinvolti adolescenti, a volte minorenni e a volte no, in azioni violente, dal cosiddetto bullismo a scuola alle esecuzioni di stampo mafioso, ci convocano ad una riflessione attenta e pacata.

La politica, nei suoi modi e tempi, tenta di arginare quello che sembra ormai essere un dilagare, non solo in Italia, di atteggiamenti e comportamenti troppo spesso ritenuti inspiegabili o, altrettanto spesso, sommariamente spiegati da psicologismi e sociologismi a buon mercato, utili a riempire una colonna di giornale o a occupare un paio di minuti in televisione.

A mio avviso di adolescenti e giovani che delinquono o che si rendono protagonisti di atti di sopraffazione e prepotenza se ne è parlato anche troppo, ma probabilmente male ed affidandosi a ricette preconfezionate. Credo che uno dei cuori del problema sia quello più strettamente trans-generazionale, nella misura in cui il passaggio, antropologico e psicologico, da una generazione all’altra, di una cultura violenta, non tanto nei comportamenti manifesti bensì in quelli paludati sotto forma di competitività, arrivismo, affermazione personale, rampatismo, e chi ne ha più ne metta, sia un ineludibile asse di considerazione.

A questo proposito basti pensare ai notevoli danni che la scuola, suo malgrado e malgrado l’onesta buona volontà della maggior parte degli insegnanti, ha cagionato con quella sorta di aziendalizzazione degli apprendimenti, un mercato delle vacche, che è la riforma cosiddetta Moratti.

Ma il male di vivere (o il vivere male) di questi nostri malandati tempi riguarda, ovviamente, anche un altro centro vitale della nostra esistenza: la famiglia. Anche lì, sempre più spesso, si assiste alla perdita del timone, alla difficoltà a tenere dritta la barra lungo un percorso che è sicuramente irto di scogli e di sforzi per superarli. Anche lì si cade facilmente preda dei vizi appena elencati, dalla competitività al rampantismo, con la scusa che i figli “so’ piezz’ e core” e che, pertanto, sono da proteggere a tutti i costi con il ragionevole dubbio che questi costi, a volte, siano inaccettabili compromessi sicuramente non richiesti dai giovani.

L’imbarazzo, in questo momento, è pressoché totale perché il rischio di cadere (o di essere già caduto) nello psicologismo e nel sociologismo a buon mercato è elevato. Pertanto, avanzo un’idea che, se realizzata, potrebbe affiancare le iniziative che si stanno per intraprendere a livello nazionale e locale.

Si tratterebbe di realizzare una scuola vera e propria per madri promotrici di eticità e legalità . Questo nella considerazione che i messaggi formativi più efficaci sono in grado di trasmetterli proprio le donne ai loro figli. Il legame che si concretizza tra madre e figlio è inscindibile e saldo, l’attaccamento che ne deriva potrebbe essere una risorsa di rilancio della convivenza civile e democratica da non trascurare, a mio avviso, oltre che il mezzo principale che consente un sano sviluppo psichico al bambino. Senza precipitare nel “mammismo”, ritengo sia importante che le madri, soprattutto coloro che non hanno avuto relative occasioni di studiare e crescere in un contesto culturalmente valido, siano informate e formate all’etica e alla legalità, convinto come sono che la loro crescita culturale, generale e specifica, possa avere una ricaduta positiva sullo sviluppo psicologico e sociale dei figli.

Del resto la centralità della donna nella nostra società, il suo modo di vedere e pensare alle cose, anche in politica e nell’economia, è un dato di fatto diffuso e imprescindibile che dovrebbe essere ancor più esaltato e valorizzato come focus di un serio intervento psicosociale di comunità.

NOI DIVERSAMENTE ABILI VITTIME DELLA DEMAGOGIA di Bruno Marchi

la Repubblica” del 28 febbraio 2006

La decisione della Regione di dedicare un inno ai portatori di handicap è retorica e non può eludere ben altri problemi


Sono un “diversamente abile” (anche se fino a non molto tempo fa ero sicuro di essere un uomo). Cosa succede? La demagogia e la retorica si sono impossessate anche di chi ho votato alle ultime elezioni regionali, sin dalle primarie?

Con vivo sconcerto leggo che il 9 febbraio scorso la Regione Puglia, con una legge (la numero 3) ha aggiunto un comma (1bis) alla Legge Regionale del 1 dicembre 2003 n. 24 “Istituzione della giornata regionale del diversamente abile”. C’è scritto: “La Regione adotta l’inno ai diversamente abili di cui all’allegato 1 della presente legge e ne promuove la diffusione su tutto il territorio regionale.” Segue uno spartito musicale con tanto di testo (è pur sempre un inno!) il cui titolo è “Il centro del sorriso”.

Non ho idea di come sia la resa musicale (non so leggere la musica) e le poche parole vergate a mano lasciano intendere una certa tronfia retorica. Ma poco importa perché non è certo una recensione che voglio fare.

Non so chi sia l’autore e nemmeno da cosa origini questa discutibile iniziativa che va ad integrare l’altra, pure discutibile, iniziativa relativa alla istituzione della “giornata regionale del diversamente abile”. E’ probabile che sia un concorso o qualcosa del genere, ma poco importa anche questo aspetto perché di certo non sono qui per stigmatizzare la creatività e l’impegno di alcuni.

Ciò che mi preme comunicare è che credo sia necessario mettere da parte demagogia e retorica per andare alla sostanza dei problemi e, con riguardo a chi ha problemi fisici e/o psichici, alla sostanza delle difficoltà quotidiane che, molto spesso, generano discriminazione, sofferenza e reale diversità. Un esempio valga per tutti.

Non molto tempo fa, si era ancora nell’era Fitto, ho avuto modo di partecipare – per motivi professionali e in rappresentanza del Terzo Settore – ad un gruppo di lavoro in Regione che, sic (!), organizzava proprio la “Giornata Regionale del Diversamente Abile”. Già in quella sede segnalai che nei pressi del palazzo della Presidenza Regionale (per intenderci, quello sul Lungomare), laddove si svolgevano le riunioni, non c’era un parcheggio riservato a portatori di handicap. La volta successiva, ironia della sorte, mi multarono per divieto di sosta, non sapevo dove parcheggiare e il primo posto utile era davvero lontano. Ma non finisce qui.

Le riunioni si svolgevano in una saletta, nei pressi dell’ufficio del Presidente, in cima ad una erta scala che non aveva l’ombra di un corrimano. A dir poco tragicomico (visto il tema della riunione) per quelli che, in carrozzella o con difficoltà deambulatorie, tra i quali l’onorevole Antonio Guidi, dovevano arrampicarsi su per gli alti gradini. La settimana successiva ho personalmente vissuto una diaspora per i corridoi del Palazzo della Presidenza Regionale perché, dovendo raggiungere una certa sala, dove nel frattempo erano state dirottate le riunioni, ho dovuto mettere in allarme il personale della sicurezza e gli impiegati mendicando una chiave per avere accesso ad un banalissimo ascensore. Tra me e questa sala c’era uno scalone in marmo bianco, anche questo senza uno straccio di passamano.

E allora, di cosa stiamo parlando? Di problemi reali (quali sono le barriere architettoniche tuttora dominanti negli uffici pubblici o di pubblica utilità come, per esempio, le banche) o di canzoni e disegnini a tema per far felici (?) i “diversamente abili”, dando loro occasionali dolcetti farciti di demagogia e retorica? Non sarebbe meglio rimboccarsi le maniche e lavorare in silenzio piuttosto che, addirittura, cantare?

Un ultima cortesia, chiunque canterà quell’inno non lo faccia anche in mio nome. Grazie.

LETTERA A OSSERVATORIO di Bruno Marchi

Lettera pubblicata sul mensile “Osservatorio” – Agosto 2006

Il dibattito sul futuro candidato sindaco del centrosinistra, alle prossime elezioni amministrative comunali, subisce una breve battuta d’arresto in attesa della ripresa di settembre, ma finora è stato piuttosto vivace e articolato, sia nelle sedi ufficiali di partito sia sulla stampa locale.

Come già in altre occasioni, la discussione pare focalizzata o, sarebbe meglio dire, cristallizzata sui nomi dei possibili candidati piuttosto che sul programma che gli stessi dovrebbero proporre all’elettorato. Per superare questo empasse è stata lanciata l’idea di una conferenza programmatica, da organizzare il prossimo autunno.

La conferenza programmatica dovrebbe, almeno si spera, scongiurare il rischio di pensare al candidato prima ancora di pensare al programma. Questo perchè sono i programmi e le valutazioni politiche a “disegnare” il profilo del candidato sindaco, il quale caratterizzerebbe la sua proposta con la sua personalità e provenienza politico-culturale. Se ne fosse individuato più di uno c’è sempre il prezioso strumento delle elezioni primarie.

Il discorso, quindi, non dovrebbe essere centrato sulle persone in quanto tali (quale candidato sindaco?), bensì su quanta unità il centrosinistra è in grado di garantire, al fine di ribaltare una situazione politica e amministrativa locale del tutto insoddisfacente e asfittica. La conferenza programmatica del centrosinistra e le eventuali primarie, alimenterebbero il confronto e la riflessione comune sulle cose da fare e sul come farle, neutralizzando le contrapposizioni personali e gli psicodrammi collettivi. Confronto e riflessione che esorcizzerebbero la sciagurata e suicida ipotesi, per il centrosinistra, di presentarsi all’appuntamento elettorale in ordine sparso.

A me sembra che una delle centralità del dibattito politico locale in corso riguardi il rapporto dei partiti con la comunità. Per questo, provo a fare un ragionamento

Mi chiedo: è certo che il partito sia ancora lo strumento più importante attraverso il quale raggiungere il governo di una città? Io penso di sì, pur tenendo in conto che i partiti diventano sempre più leggeri, cioè svuotati di presenze e partecipazione.

Storicamente, la frantumazione dei partiti - i quali, va ricordato, costruirono l’assetto repubblicano e costituzionale del Paese, uno tra i più solidi d’occidente - ha portato a costituzioni e ricostituzioni, non sempre riuscite, di formazioni politiche. La ricerca di nuove soggettività, in alcuni casi anche di nuove identità, politiche è tuttora in corso. Basti pensare al Partito Democratico o, sul fronte opposto, al partito del moderati o dei populisti. Le minacce alla Costituzione e alla democrazia, le sirene di Berlusconi e soci, la destabilizzazione e, infine un’economia mandata a rotoli, in questi ultimi cinque anni hanno rappresentato un serio pericolo per la nazione. In periferia, e a Fasano, non è che sia andata meglio.

Ma, dicevo prima, i partiti diventano sempre più leggeri e sempre meno frequentati, soprattutto dai giovani. Come porre rimedio? A mio avviso occorrerebbe realizzare rinnovate forme di dialogo con quanti, e sono tanti, rappresentano risorse professionali, imprenditoriali, intellettuali e morali, sia giovanili che adulte. Sollecitare al dialogo quei concittadini che paiono in uno stato di quiescenza rispetto alle faccende del “bene comune”, come addormentati ma, forse, in attesa di risveglio.

Che fare? L’idea è semplice e complessa allo stesso tempo: mettere insieme le forze (di partito e civiche, per intenderci), rifuggendo la contrapposizione tra politica, vissuta come professione, e società percepita come distante dalle cose del Palazzo.

La conferenza programmatica potrebbe essere il primo passo in questa direzione, cercando di realizzare a Fasano ciò che è stato fatto in tanti altri comuni d’Italia. L’esempio di Bari, con Emiliano, è a portata di mano, sebbene non sia l’unico. La pratica politica dovrebbe recuperare la dialettica finalizzata all’integrazione, per così dire, del “politico” e del “civico”. Virgoletto i termini perché politico e civico, in occasione delle elezioni amministrative comunali, sono comunque saldamente intrecciati, il punto è, dunque, quello di colmare la divaricazione tra i partiti e la società che, impossibile negarlo, in questi ultimi anni è aumentata.

Per concludere: confrontarsi per costruire un programma politico e amministrativo, attraverso lo strumento di una conferenza programmatica, ma non solo, organizzata da partiti e “società civile”, potrebbe essere un primo banco di prova. In seguito individuare un candidato sindaco attraverso lo strumento delle primarie, se necessario.

A volte le idee possono essere semplici anche se di complessa realizzazione, ma comportano, comunque, concentrazione e impegno. Lo sforzo, io penso, è soprattutto di natura culturale: l’unione è possibile se, per dirla con Schopenhauer, pensiamo che “il compito non è tanto quello di vedere ciò che nessuno ha finora visto, quanto quello di pensare ciò che nessuno ha ancora saputo pensare rispetto alle cose che sono sotto gli occhi di tutti”.

Bruno Marchi

COSÌ LA BUROCRAZIA NEGA TUTELA E DIRITTI DEI MINORI di Bruno Marchi

la Repubblica” del 22 marzo 2006

Dopo il caso della piccola Eleonora di Enziteto, la morte di Valentina ad Adelfia evidenzia i guasti di un sistema.

Ad Adelfia un’altra tragedia si consuma e purtroppo non possiamo dire “dopo quella di Enziteto”, perché tra l’una e l’altra tante altre drammatiche vicende si sono dipanate, molte nemmeno denunciate, sotto gli occhi indifferenti di chi è fin troppo intento a curare i propri interessi, di varia natura, e avverte solo un lieve brivido, che poi passa subito, di fronte a notizie simili.

Più o meno inermi assistiamo a noiose tribune politiche che dovrebbero orientare al voto ma che rischiano, piuttosto, di allontanare anche dal democratico e partecipato gesto di apporre un segno su un simbolo. Già, perché i nostri “portaportaioli” discettando di economia, micro o macro che sia, di cunei fiscali e patrimoniali, dimenticano – forse perché mai li hanno conosciuti – i poveri, quelli che patiscono la fame e che vivono nei tuguri, a pochi chilometri dalla sfavillante città.

I poveri, parola viene usata poco e che turba le coscienze. Tutti abbiamo detto, almeno una volta nella vita, che i poveri non sono tali perché, comunque, hanno la macchina lussuosa, il televisore a colori e il telefonino di ultima generazione. Un modo come un altro per coprire con la foglia di fico del perbenismo la vergogna di contribuire alla costruzione di queste miserie, evitando di guardarle negli occhi e preferendo impegnarsi per i bambini africani o brasiliani, magari con un’adozione a distanza, ben lontani dalla vista e dal cuore. Un modo come un altro per difendersi dalla inettitudine cui i servizi sociali dei comuni e dei consultori sono costretti o dal caos imperante di un tribunale per i minorenni che, per questo, assomiglia più ad una vucciria che ad una istituzione deputata a difendere e tutelare i diritti dei minori. I tempi biblici che scorrono in questi corridoi procurano attese di mesi, a volte anni, per un provvedimento che quando arriva magari è superato perché nel frattempo il bambino è cresciuto e, per questo, cambiato. Proprio la giustizia minorile non dovrebbe soffrire della stessa malattia che affligge quella ordinaria. Dovrebbe essere più veloce (non frettolosa), più tempestiva. Invece, accade che le procedure, salvo quelle d’urgenza, allunghino così tanto i tempi da, molto spesso, cronicizzare le situazioni sociali e familiari. Certo tale difficile condizione della giustizia minorile deriva anche dal fatto che i Tribunali per i Minorenni pugliesi pur essendo tre (e non sono pochi), da anni cercano, disperatamente, di arginare l’onda anomala del disagio infantile e adolescenziale.

Come mai proprio in Puglia questa ininterrotta emergenza, perché la situazione sociale è così grave? Due elementi, tra i tanti, preferisco evidenziare. Il primo è di natura culturale e ne facevo cenno all’inizio, cioè la marcata tendenza a nascondere la povertà, a scotomizzarla per negarla. Il secondo riguarda il pesante lascito politico (di democristiana memoria) che riduce l’intervento sociale ad un’elemosina. Non sono pochi i comuni che, ancora oggi, elargiscono ai “poveri” contributi in denaro, alimentando così una visione assitenzialistica spicciola a tutto danno della programmazione e progettazione sociale.

Le storie di “ordinaria povertà”, come questa di Adelfia, se ricostruite, se approfondite ben oltre la cronaca giudiziaria e lo spazio dello scandalo urlato per qualche giorno, probabilmente condurrebbero a situazioni umane che non sono state curate, ma nemmeno diagnosticate, correttamente sin dall’inizio. La soggettività e la sofferenza psichica di chi commette atti simili vengono coperte dalle responsabilità penali individuali che pure ci sono, ma non dovremmo dimenticare le responsabilità politiche di chi non ha saputo evitare quella povertà e ha lasciato che si incancrenisse.

I NOSTRI RAGAZZI CI PARLANO, ASCOLTIAMOLI

“il Quotidiano” di Brindisi del 21 marzo 2006

Gli esempi diseducativi e l’assenza di genitori e scuola


L’ultimo inquietante episodio che vede coinvolte, vittima e aggressore, due minorenni a Fasano, impone più di una riflessione circa i destini delle più giovani generazioni in questa città, ma non solo.

Va da sé che quanto accaduto è ascrivibile ad una serie di fattori sociologici, dai più generali a quelli più particolari, i quali ovviamente influenzano la crescita degli adolescenti in direzioni non sempre meno prevedibili. Tra questi fattori, a costo di apparire retorico e tautologico, non temo di mettere al primo posto il nefasto potere della televisione commerciale, “cattiva maestra televisione”, secondo la felice espressione di Popper, che quotidianamente e per tante ore somministra e ammannisce spettacoli di dubbio gusto: da “Amici” a “Uomini e Donne” e via via, attraversando questa specie di tunnel catodico dell’orrore, per arrivare ai reality o alle fiction. I messaggi che veicolano queste trasmissioni, come si suole dire, sono diseducativi (ma poi, cos’è l’educazione se non la proposta di un modello culturale e sociale sufficientemente solido e adeguato?) e rimandano, amplificati dal tam tam dei sms sui cellulari, una sconcertante distorsione della realtà perché sono finti. E’ dato, dunque, assistere a spettacoli volgari e sguaiati di ragazze che litigano per il belloccio di turno o a strazianti abbracci recapitati per poste del cuore o per carrambate di vario genere. Dove mai sarà relegata la cultura? Anche la televisione di servizio pubblico ha abdicato alla logica di mercato, secondo la quale tutto può e deve essere mercificato, anche i sentimenti e le emozioni. Da qui, il passaggio dalla finzione (laddove anche i reality, ovviamente, sono una spudorata finzione) alla realtà della vita quotidiana è breve: ciò che accade in televisione pare possibile e plausibile, le lotte per “restare nella casa” o per “vincere” il privilegio delle attenzioni di un moderno cicisbeo sembrano così vere da dover essere emulate.

Ma, l’anello debole in tutto ciò sta, a mio avviso, nell’abbassamento della guardia nei confronti di questi ragazzi che, ieri come oggi, proprio a cagione della loro età e di quanto interiormente vivono, chiedono a gran voce, agli adulti di riferimento, di essere contenuti e ascoltati. Al contrario, molto spesso accade che gli adolescenti siano lasciati a loro stessi, appunto davanti alla tv o ad un videogioco, ovvero a frequentare amici che spesso non si conoscono abbastanza e che i genitori non hanno tempo, e forse anche voglia, di conoscere. Pur essendo vera e fisiologica la spinta all’autonomia dagli adulti di ogni adolescente, è altrettanto vera la necessità che ognuno di loro ha di essere guidato e condotto lungo strade che formino alla vita. Su questo l’istituzione principale che dovrebbe coadiuvare il ruolo educativo dei genitori, la scuola, da anni perde costantemente prestigio e autorità, massacrata com’è dalla gran messe di riforme e controriforme che si susseguono al ritmo di una ogni tre o quattro anni.

Un’ultima considerazione riguarda le difficoltà sociali nelle quali la Puglia ancora si dibatte. Un territorio, quello regionale, frastagliato e ricco di zone di luce, nel senso di piena evidenza delle problematiche (si pensi ai capoluoghi di provincia, soprattutto, o ad alcuni grossi centri), ma anche denso di zone d’ombra, laddove apparentemente le cose vanno meglio. E’ proprio da lì che spesso giungono le sorprese più sgradite. E’ lì che, spesso, i minorenni sono più in pericolo perché è lì che si è abbassata la guardia.

L’aspetto più inquietante, perché sommerso e sottaciuto, è l’aumento dell’uso di sostanze stupefacenti, sintetiche o meno, da parte di adolescenti poco più che tredicenni, nonché di alcol che nei locali e nei bar viene somministrato senza preoccuparsi dell’età di chi lo richiede. E’ un fenomeno in crescita che va di pari passo con i grossi cambiamenti nello stile di vita dei ragazzi e delle ragazze, complice un presunto senso del “commercio che fa girare l’economia”, per cui è tutto un proliferare di locali notturni i cui clienti sono soprattutto giovani e giovanissimi consumatori.

E’ difficile dare un senso a tutto ciò, ma credo che per il momento sia sufficiente riaffermare che noi adulti dovremmo dormire sonni un po’ meno tranquilli e occuparci (non solo preoccuparci) ancora di più dei nostri figli, cercando di ascoltarli e di sintonizzarci sulle loro esigenze le quali non sono diverse da quelle di tutti i ragazzi e le ragazze di ogni latitudine e generazione.

MEZZOGIORNO E MINORI A RISCHIO, LE DUE GRANDI QUESTIONI IRRISOLTE di Bruno Marchi

la Repubblica” del 26 maggio 2005

A Bari gli affidamenti giudiziari riguardano il 75 per cento dei bimbi maltrattati, a Taranto il 93 contro una media nazionale del 58


Il recente annullamento della pubblicazione del Regolamento Regionale di attuazione della legge sui servizi sociali n. 17 del 2003, in materia di autorizzazione e accreditamento delle strutture operanti nel settore dei servizi sociali, di fatto offre l’occasione di una sua possibile riscrittura perché, per molti versi, così com’era stato concepito, era distante dalla realtà operativa e quotidiana di quanti si occupano di minori, ma non solo. Sarà, dunque, importante riflettere, a partire da alcuni dati, sulla questione minorile in Puglia e sui possibili “rimedi”, insieme, operatori e amministratori regionali.

La popolazione pugliese è demograficamente più giovane rispetto a quella nazionale. Nel 2001 l’ISTAT ha rilevato in Puglia oltre 1.300.000 famiglie. Delle circa 719.000 coppie con figli, più del 63% ha almeno un figlio minore (3 punti percentuali in più rispetto alla media nazionale).

La legge 285 del 1997, avviò un processo di promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Già da allora la Puglia risultava essere la regione d’Italia più “a rischio”. Infatti, delle dodici “città polo”, individuate sull’intero territorio nazionale ed alle quali era stato destinato ben il 30% circa degli ingenti finanziamenti, le pugliesi erano tre: Bari, Brindisi e Taranto. Tuttora le cose non sono cambiate di molto.

Altro dato inquietante che segnala la gravità della condizione minorile in Puglia è la presenza di tre Tribunali per i Minorenni (Bari, Lecce e Taranto). Tanti, se si pensa che solo in Sicilia sono quattro e nelle altre regioni, praticamente, ce n’è solo uno o al massimo due.

Oggi aumentano i reati commessi da minorenni in Puglia. Infatti, la percentuale di minorenni denunciati è superiore di un punto rispetto a quella nazionale. Così come sono in aumento i maltrattamenti subiti da minorenni.

Le province maggiormente coinvolte sono quelle di Bari e Taranto i cui rispettivi Tribunali minorili hanno, nel 2001, decretato affidamenti giudiziali, soprattutto a comunità e istituti, in percentuale di molto maggiore a quella nazionale. Infatti Bari detiene il 75% degli affidamenti giudiziali e Taranto il 93%, contro il 58% del valore medio nazionale.

La situazione è, pertanto, drammatica ma, nonostante ciò, le comunità educative, gli istituti e i centri diurni, gestiti da enti religiosi o da cooperative, che accolgono minori, sono spesso messi in ginocchio dalla mancanza cronica di fondi dei comuni che dovrebbero erogare rette adeguate. Nonostante, a fronte di rette così basse vi siano le giuste disposizioni regionali di adeguamenti strutturali e di numero di operatori da impiegare a fianco dei bambini e ragazzi in difficoltà. Ma, con quali risorse operare? A volte a risentirne è la qualità della prestazione, a tutto danno degli assistiti.

Il problema, a mio avviso, risiede in una assente volontà culturale, e di rimando politica, di affrontare e risolvere la questione minorile, che da noi rischia di essere storicizzata al pari di quella meridionale.

Fino a quando l’asse culturale e politico non si sposterà verso il bambino e l’adolescente, assumendone la prospettiva evolutiva, ci si occuperà di loro solo in chiave scandalistica, come nel caso della pedofilia, e non per attivare concrete risorse economiche strutturali per affrontare il tema nella sua interezza.

I GIOVANI AD ALTA VELOCITÀ E LA NUOVA PAURA DI VIVERE di Bruno Marchi

la Repubblica” del 14 agosto 2005

Le cronache forniscono il bilancio quotidiano di stragi, ma i ragazzi girovaghi della notte denunciano malesseri che sono epocali.


La cronaca di questi giorni riporta gravi notizie di giovani morti sulle strade a causa dell’alta velocità o perché coinvolti in risse fuori dalle discoteche. La reazione a questi tragici eventi dovrebbe andare oltre il pur sentito cordoglio e l’onesta preoccupazione collettiva, cercando di interrogarsi sui cambiamenti di questi ultimissimi anni. Una tra le chiavi di lettura possibili, secondo me, è quella di considerare lo sviluppo selvaggio e senza regole del turismo o delle attività ad esso collegate, come fosse una cartina tornasole del livello di sviluppo sociale raggiunto.

In Puglia di turismo ve n’è ben poco, se si pensa che questa attività contiene, in nuce, l’idea dell’accoglienza e dell’ospitalità, del riposo e dello scambio culturale con i “forestieri”. Il nostro turismo molto spesso si traduce in attività votate a “bruciare” nel giro di quaranta giorni estivi le risorse disponibili e la relativa offerta, per incassare quanto più possibile. Il risultato è una massificazione e stratificazione “turistica” che procura vertigini ai più, in particolar modo ai giovani e giovanissimi, ai quali pare che, in questa “quaresima” al contrario, debbano far tutto e subito. Soprattutto tirar tardi la notte, sino al mattino, con quello che comporta in termini di stravolgimento del ritmo psico-biologico del sonno e della veglia, nonché dell’uso di sostanze per riuscire a stare svegli quali bevande a base di caffeina o, peggio, alcol e droghe. L’alta velocità è, spesso, una conseguenza di ciò.

Questi “girovaghi della notte”, sono prigionieri della loro stessa ritualità che, vista la diffusione del fenomeno, ormai ha perso la sua primigenia caratteristica di trasgressione per coniugare, piuttosto, un modello di vita consumato e abusato. Ragazzi e ragazze, anche minorenni, si sentirebbero fuori dal giro se uscissero di casa alle nove di sera per far rientro a mezzanotte, “proprio quando ha inizio la vita”, ti dicono. La notte, è ormai di massa, oggetto di consumo che non ha più il fascino della quiete che favorisce la riflessione e l’interiorizzazione. E’ diventata un non luogo per randagi che vagano per le vie dei centri storici non più deserti, tra un panino e una birra, tra un fornello pronto e una gelateria, dove volgarità e sguaiataggine non mancano, in nome di uno sviluppo turistico che ha tutta l’aria di essere una involuzione, una sorta di imbarbarimento, perché senza regole, senza cultura e senza ritegno. Bancarelle, pub, pizzerie, negozi di souvenir e artigianato, coprono la storia e la cultura dei paesi a “vocazione turistica”, e invadono la domesticità di quanti vi abitano e lavorano per il resto dell’anno. Frotte di turisti e “forestieri” che producono sporcizia e rumori molesti, che fanno precipitare la qualità della vita in genere e delle vacanze in particolare. Pertanto, Ostuni, Martina Franca, Trani, Peschici, Otranto come Rimini, Ibiza, Creta e Sharm el Sheik: enormi suk, anonimi e tristemente omologati dalla globalizzazione che cancella la memoria dei luoghi, trasformando la storia e la cultura in una appiccicosa melassa occidentale e consumistica.

I comportamenti di questi ragazzi, però, qualcosa ce lo mandano a dire. Probabilmente, segnalano il disagio che deriva dalla paura di vivere in una società dal futuro offuscato dalle minacciose nubi della precarietà lavorativa, della guerra, del declino ambientale. Problemi che da sempre le nuove generazioni avvertono, grazie alla loro sensibilità, e che da sempre segnalano agli adulti. In questi ultimi anni, però, sembra che i giovani abbiano rinunciato alla trasformazione, arrendendosi all’ideologia dei consumi o aggrappandosi ideologicamente ai valori preconfezionati delle, poche, chiese non ancora crollate. Nonostante ciò, non perdiamoli di vista e veicoliamo verso loro tutte le risorse culturali e formative possibili, cercando, fino a quando saremo i loro adulti di riferimento, di realizzare un ambiente di vita meno vorace e più attento alle regole.

SERVIZI SOCIALI DA RINNOVARE, LA POLITICA SI AFFIDI AI TECNICI di Bruno Marchi

la Repubblica” del 12 aprile 2005

La gestione degli interventi va messa nelle mani di professionisti che si siano formati sul campo

La speranza che ha attivato l’elezione di Nichi Vendola attraversa, come il dato elettorale dimostra, molti strati della cosiddetta società civile. Speranza, soprattutto, di una diversa qualità della politica e del rapporto con il territorio. Speranza che l’estremo bisogno di rinnovamento sia soddisfatto. Speranza, infine, che siano sovvertite alcune regole che la politica in Puglia, ma non solo, si è data.

In questa prospettiva una delle centralità, se è vero che esistono molti “centri” nelle questioni, è senz’altro quella sociale. Laddove il carattere di emergenzialità balza agli occhi ed agli onori delle cronache più o meno quotidianamente.

Nell'ultima legislatura del governo regionale di centrodestra, in Puglia, i diritti ad una vita dignitosa, alla salute, al benessere sociale, all'inclusione degli emarginati, alle pari opportunità nell’accesso al lavoro hanno avuto scarsa cittadinanza. A partire dalla scellerata gestione del riordino ospedaliero che, seppur necessario, non è stato programmato adeguatamente e non ha tenuto conto di una visione più umana del malato e della malattia, per finire al campo sociale, dove le cose non sono andate affatto meglio.

Dopo avere accumulato un criminoso ritardo di quattro anni, si sono visti i primi provvedimenti: il Piano Regionale delle Politiche Sociali ed i Regolamenti attuativi, approvati in via definitiva soltanto il mese scorso.

I Piani Sociali di Zona faranno arrivare risorse ai Comuni e quindi servizi sociali ai cittadini, alle famiglie, ai soggetti deboli, ma nel 2005! Cioè cinque anni dopo la riforma del settore, ad onta del fatto che la Puglia sia ultima, in Italia, per stanziamenti di risorse e per i servizi sociali: appena 15 milioni di euro l’anno, che non vengono incrementati per realizzare una rete diffusa di servizi essenziali in campo sociale.

Il Piano Regionale delle Politiche Sociali è nato sotto l’egida di una finta concertazione e partecipazione dei cittadini, delle famiglie, del terzo settore, tutti chiamati soltanto a ratificare scelte già fatte da altri: “esperti”, rispondenti alla ideologia che problemi di natura umana possano essere affrontati tecnicamente e con atteggiamento supino alla volontà del politico di turno. Persone che, nella maggior parte dei casi, dall’alto delle loro cattedre universitarie o della loro esperienza amministrativa, pur essendo “bravi”, quasi mai hanno guardato negli occhi un tossicodipendente o aiutato un anziano a lavarsi e vestirsi, quasi mai hanno accolto un bambino o hanno parlato con un immigrato. Cose che, invece, quotidianamente, fanno gli operatori sociali, pubblici e privati.

Eppure, questi operatori, non hanno avuto la possibilità di dar voce al bisogno, all’essenza della sofferenza e del disagio. Di dispiegare, nel dialogo, le problematiche e di proporre ipotesi di soluzione. Di progettare il futuro per i tossici, i bambini abbandonati, gli anziani soli, i disabili e di tutti quelli che portano addosso la croce della “fragilità sociale”.

La speranza, una tra le tante che l’elezione di Vendola ha attivato, è quella che nella scelta degli assessori, almeno per il settore sociale, si superi l’approccio tipico della politica e si giunga ad un incarico affidato a chi le problematiche le conosce non solo “tecnicamente”, ma soprattutto da vicino e “umanamente”.

LE PERIFERIE ABBANDONATE E LE FINTE LUCI DELLA METROPOLI di Bruno Marchi

la Repubblica” del 13 gennaio 2005

In questi giorni riempiti dai saldi, dal pallone e dal teatrino della politica una bimba è morta di stenti nel degrado

“Il re è nudo!”, disse il bambino alla mamma e tutti risero dell’imperatore.

“Il re è nudo!” verrebbe da ripetere oggi, ma non c’è niente da ridere.

Già, la drammatica vicenda della bambina morta di stenti, in una delle tante periferie del mondo, questa volta localizzata a Bari, costringe, alla fioca luce della nostra coscienza civica, ad un riflessione amara e quanto mai vera: il degrado è sotto gli occhi di tutti, non distante dalle vetrine del centro e dagli addobbi natalizi, anzitempo sostituti dalle maschere di Carnevale, così producendo un’orribile effetto estetico e culturale. Tutti conosciamo lo stato d’abbandono delle periferie, dalle quali quotidianamente, come falene, migrano verso il centro frotte di adolescenti, attratti dalle “luci della città” e che indossano imitazioni di capi d’abbigliamento o di scarpe o di occhiali da sole. Tutti vagamente percepiamo che quella roba taroccata è voglia di omologazione ai consumi e, contestualmente, frustrazione per la consapevolezza che è sempre più arduo farcela. Ma, nonostante questa nostra blanda presa di coscienza, non ci smuoviamo dall’omertoso silenzio che, anzi, di fronte alla povertà ed alla disoccupazione, di fronte ai bambini abusati e maltrattati, di fronte alla delinquenza minorile ed alla tossicodipendenza, di fronte alla devianza ed alla malattia mentale, aumenta d‘intensità. Un silenzio mortale ed assordante, in questi giorni riempito di saldi e di “ripresa dei consumi” ed in altri momenti occupato dal pallone o dal teatrino della politica “porta a porta”, ci opprime.

Nel frattempo, si accumulano i fascicoli, civili e penali, presso i Tribunali per i Minorenni, per cui occorre attendere, molto spesso, mesi per un provvedimento che quando arriva magari non serve più a nulla, avendo mancato il “tempo giusto”. Nel frattempo, le finanziarie di questi ultimi anni hanno costantemente eroso, fino all’osso, le spese relative ai servizi sociali, riducendo gli stanziamenti alle attività di prevenzione e cura del disagio, nonché impedendo nuove assunzioni di assistenti sociali, educatori e psicologi. Nel frattempo, l’università boccheggia laureando figure professionali che non hanno sbocchi occupazionali certi. Nel frattempo, in Regione s’è sprecato tempo, anni, per la stesura di un risibile piano delle politiche sociali, così come ora se ne sta sciupando per il licenziamento dei regolamenti attuativi da parte della competente commissione. Nel frattempo, infine, i Comuni sono poco più che all’anno zero nella formulazione dei Piani di Zona ai quali tutti sembrano attribuire virtù taumaturgiche ma che, se non saranno sostenuti da significative capacità umane e professionali, oltre che politiche e culturali, ben poco potranno contro lo tsumani sociale che ci sta travolgendo.

A cosa serve a piangersi addosso? A chi è utile scandalizzarsi? Forse ai giornali ed alle televisioni, che così aumentano vendite ed ascolti, forse a chi non è addetto ai lavori. Ma agli altri, operatori e cittadini in difficoltà, cioè a chi “ci sta in mezzo”, resta poco da dire se non: “Il re è nudo!”.

RIORDINO OSPEDALIERO di Bruno Marchi

“Osservatorio” del mese di aprile 2004

Da più parti, in posti diversi, la protesta, vibrata e convinta, avversa al piano di riordino ospedaliero voluto dalla Regione Puglia che, di fatto, ha portato alla chiusura di diversi ospedali, quello di Terlizzi il più noto alle cronache.

Impossibile non essere d'accordo e solidarizzare con quanti hanno avuto la sensibilità politica di organizzare il dissenso e di manifestare contro una decisione dissennata e crudelmente "aziendalistica". Il centrosinistra ha rivestito, in questa occasione, i panni (a dire il vero, dismessi da troppo tempo) di una opposizione di matrice popolare che tiene finalmente conto dei problemi concreti di chi, quotidianamente, si vede sottratti diritti e potere d’acquisto dei salari e degli stipendi, di chi deve “tirare la cinghia” fino alla fine del mese (sempre che abbia un’occupazione stabile) o di chi non ha nemmeno più la cinghia da stringere. Dov’è mai il miracolo berlusconiano che tanto ha “fascinato” gli elettori?

Il piano di riordino ospedaliero è la razionalizzazione di un servizio. Questa versione è stata contrabbandata e, a dosi minime, somministrata a coloro che avrebbero dovuto supinamente accettare simili scelte, almeno secondo i programmi dei generali regionali e dei caporali locali, di volta in volta assoldati, per spiegare alla truppa come stanno le cose.

Qui, comunque, non intendo portare ulteriori argomentazioni politiche, che hanno piena dignità e rilevanza, perché in tanti lo hanno già fatto e molto meglio di me. Vorrei, piuttosto, mantenermi nel cono d'ombra di alcune considerazioni prossime all'essenza della natura umana. Con ciò intendo dire che questa, ripeto, dissennata scelta di chiudere gli ospedali, riducendoli a pallidi rappresentanti della qualità e dell'utilità sociale che hanno sempre rivestito, ignora completamente la dimensione umana che, in occasione della sofferenza dovuta a malattia, assurge a livelli sicuramente prioritari.

In sostanza, chi ha operato tali scelte, tagliando con l'accetta territori e competenze, è senz’altro totalmente ignorante circa alcuni aspetti che hanno a che fare con la persona (oltre che con i diritti) intesa nella sua globalità. Facciamo il caso di un ammalato che, costretto da questo "piano di riordino ospedaliero", debba recarsi nel vicino comune, magari a “soli” quindici chilometri, per farsi curare. Cosa vivrà oltre alla “fisiologica traumaticità” di un ricovero ospedaliero? Con ogni probabilità vivrà anche un senso di estraneità sociale, culturale ed ambientale. Ciò comporterà assoluti ritardi nel processo di guarigione che necessita, stante dimostrate ricerche scientifiche in merito, di adesione emotiva ed "affetto" che però, a fronte di cotanta distanza fisica, scarseggeranno. L'ammalato potrebbe, pertanto, sentirsi ancora più solo, ancora più abbandonato alla sua patologia perché i parenti non potranno fargli visita con facilità, perché gli infermieri non parleranno il suo dialetto, perché attorno sentirà parlare di un paese che non è il suo, perché drammaticamente potrebbe vivere una specie di "isolamento antropologico".

Tale scenario (molto plausibile) è di segno contrario alla più moderna concezione della medicina intesa anche come “counseling” e “ascolto” del paziente, così come ben sintetizzato dal professor Fabio Folgheraiter, dell’Università di Trento: Se una persona si trova in difficoltà, il modo migliore di venirle in aiuto non è quello di dirle cosa fare (facendo attenzione al contenuto razionale di tale consiglio, ossia che sia realmente sensato rispetto alla situazione) quanto piuttosto quello di aiutarla a comprendere la sua situazione e a gestire il problema prendendo da sola e pienamente le responsabilità delle scelte individuali.” In poche parole, piena responsabilizzazione del paziente ed attenzione alle sue scelte. Tale processo, che di per sé è già “terapeutico”, a me sembra sia piuttosto demolito da un approccio di tipo aziendale alla salute, dove l’ammalato è solo una cifra residente su un territorio tagliato fuori da certe logiche e penalizzato. Come potrà mai un paziente essere il protagonista di un percorso terapeutico, guidato dal medico, ovviamente, se costretto ad un territorio che non gli appartiene?

A scanso equivoci, vorrei chiarire che queste considerazioni fanno riferimento a quelle patologie che finora sono state curate presso gli ospedali locali e non certo a quelle che non potevano essere seguite (perché non c’erano i reparti specialistici) e per le quali, comunque, ci si rivolgeva ad altri nosocomi. Oggi, nei comuni penalizzati da questo piano di riordino, invece, si è costretti ad “andar fuori” anche per una appendicite o per una frattura e, addirittura, per nascere. Non c’è scelta, e allora dov’è la possibilità, per una persona, di “gestire il problema, prendendo da sola e pienamente le responsabilità delle scelte individuali”?

Queste scelte, a scapito della salute dei cittadini, sono di segno contrario alle nuove concezioni in materia di gestione della sanità: assistenza domiciliare integrata (ADI), ospedalizzazione domiciliare, assistenza domiciliare sanitaria e day hospital. Chi le ha operate è probabile che non le conosca e questo sarebbe grave, ma lo sarebbe ancor di più se le conoscesse. L’ignoranza, presunta o vera, gioca con la pelle (psichica e non solo) di quanti, già in situazione di difficoltà (altrimenti non andrebbero in ospedale) saranno costretti a vivere ulteriori difficoltà, derivanti dall'isolamento e dalla lontananza dal proprio ambiente culturale e sociale.

L'aziendalizzazione, la razionalizzazione, di questi servizi (che possono essere assimilati ai cosiddetti "servizi alla persona") conduce, dritto dritto, alla negazione della sofferenza in quanto tale, come se tutto potesse essere guarito solo perché c'è qualche medico che ti gira attorno. Purtroppo non è così, magari lo fosse. Piuttosto è vero che la "guarigione" scaturisce anche da una "holding" (nel senso di ambiente psicologico d'accoglimento e di contenimento della sofferenza) che è costruita soprattutto dai parenti e da quanti possono "fare un salto" in ospedale per andare a trovare la persona ammalata. Si sa, medici ed infermieri, che già tanto impegno profondono, assolvono solo in minima parte a questo compito, oberati come sono dal carico lavorativo della corsia. La scelta da fare avrebbe dovuto essere orientata verso un’integrazione, sanitaria e sociale, tra gli aspetti del curare e quelli del prendersi cura e non verso la loro scissione. Tagliare, ricucire e prescrivere antibiotici soltanto o, piuttosto, offrire all’ammalato anche la possibilità di essere ascoltato ed assistito, secondo regole condivise ed entro i canoni della humana pietas?

In occasione dell'assemblea generale annuale della World Medical Association, che si è tenuta ad Helsinki all'inizio di settembre, è stato presentato uno studio internazionale sul rapporto medico-paziente, che ha evidenziato come, in tutti i Paesi, questa particolare relazione umana abbia ancora una posizione centrale, però collocandosi per importanza al secondo posto, dopo quella con i familiari. Già, dopo quella con i familiari!

Ai governanti di questa regione (ed a quanti politicamente li hanno sostenuti) sembra cosa da niente il rapporto con i familiari. Forse non sanno, e qui lo si è detto a più che chiare lettere, che è proprio questo rapporto che sostiene la terapeuticità dell'intervento medico. I nostri governanti, regionali e locali, conoscono bilanci e conti da far quadrare (forse), ma dubito che si pongano il problema di chi in ospedale, con ansia, attende che un familiare, un amico si rechi a trovarlo. Si dirà, per puro spirito di contraddizione, che oggi i mezzi di comunicazione sono veloci, forse. Ma provate a dirlo ad un anziano che voglia dare alla moglie ricoverata amorevole assistenza, per quel che gli è possibile.

Attenzione alla persona, ecco quello che è mancato. Sarebbe bastato valorizzare la dignità umana per evitare questo inutile spreco di risorse e i danni che ne deriveranno.

Politica di vecchio stampo o neo-umanesimo? A cosa riferirci quando parliamo di malattia e sofferenza?"

POLITICHE SOCIALI, NUOVA LEGGE MA OCCORRONO ANCHE I FONDI di Bruno Marchi

la Repubblica” del 18 aprile 2004


Il problema, come sempre del resto, è quello di collegare le sollecitazioni provenienti da questo strumento legislativo con una visione ‘trasversale’

La legge numero 328 del 2000 e le legge regionale numero 17 del 2003 segnano, senza ombra di dubbio, un viraggio nella concezione dell’assistenza puntando alla integrazione e coordinamento dei servizi che erogano prestazioni sociali.

Nonostante alcune polemiche in corso e il senso di “grandi affari” che la gestione di questo settore, comunque, può destare (indipendentemente da chi questi “grandi affari” penserebbe di farli e da chi invece sospetta che si facciano), è piuttosto oggettivo il ritardo con il quale la riforma di questo settore avanza in Puglia.

Le responsabilità sono diverse e non facilmente esplicitabili o riconducibili tout-court al piano politico. E’ opinione di chi scrive, che l’ambito sia così complesso e delicato, per il non trascurabile aspetto che riguarda la persona umana, da renderne inevitabilmente rallentata l’evoluzione. Si spera che questo rallentamento sia occasione di approfondite ed opportune riflessioni, nonché foriero di adeguate risposte.

Ma, è anche possibile che detta lentezza sia causata da una ancora diffusa sottocultura, riferita al sociale, legata a dinamiche di natura assistenziale relativamente moderne. In altre parole, sul piano tecnico e politico spesso si continua a pensare alle singole persone (siano essi minori, disabili o anziani, per citare solo alcune categorie di cittadini che possono andare incontro a situazioni di disagio) come ad un problema di collocamento (“Dove lo metto? Quale istituto potrà mai accogliermelo?) ed amministrativo (“Ci sono i soldi per pagare la retta?”) di non sempre facile soluzione anche perché, di solito, i “casi sociali” sono poco programmabili ed hanno carattere d’urgenza, se non d’emergenza.

La sottocultura dell’assistenzialismo, secondo me ha molto a che fare con una concezione parcellizzata della persona umana e dei suoi bisogni. Un povero, un soggetto socialmente debole e fragile, a causa della parcellizzazione dei suoi bisogni, ancora oggi viene privato della propria unità di personalità. Per esempio, il bambino o l'adolescente (così come il disabile e l’anziano fragile) da difendere e proteggere, viene molto spesso parcellizzato in una lunga serie di relazioni assistenziali - dal suo punto di vista sicuramente coatte - sin da quando ha inizio la sua “carriera” di bambino difficile o deviante: gli insegnanti, che segnalano le difficoltà d'apprendimento e di <>; gli assistenti sociali, che intervengono sulla dimensione familiare per quel che riguarda gli obblighi (igienico-sanitari, di assistenza, ecc.); gli psicologi, che spesso si <> della diagnosi perché solo in qualche raro caso, nelle strutture pubbliche sono nelle condizioni di poter curare; i pedagogisti, alla costante ricerca delle adeguate strategie educative; gli educatori delle strutture psicopedagogiche, ai quali, nella maggior parte dei casi, non resta che tentare di <>, ma senza sufficienti strumenti, le difficoltà; i giudici minorili, attenti alla applicazione della legge; gli organi di polizia, che hanno il compito di reprimere e l'elenco potrebbe continuare o potrebbe esserne stilato uno per ogni categoria.

Inoltre, se da sempre le radici sociali e politiche della miseria sono state analizzate in una logica assistenziale, che era quella di “occultare la questione politica della povertà e far tacere la voce dei poveri”, citando Robert Castel, come si può pensare che in un breve volgere di tempo si verifichi una trasformazione culturale di rilievo? Ciò, comunque, non significa che il cambiamento sia impedito. Occorrerebbe, ad ogni latitudine politica, disvelare i meccanismi che occultano “la questione politica della povertà” e porsi oltre i confini sia dell’assistenzialismo vecchia maniera e sia del più moderno “tecnicismo sociale”, per favorire un approccio maggiormente integrato alla persona in stato di difficoltà, un approccio meno parcellizzante.

In tal senso la legge per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, la 328 del 2000, appunto, uno sforzo pare compierlo. Il problema, come sempre del resto, è quello di coniugare le sollecitazioni provenienti da questo strumento legislativo, pure importante e significativo, nonostante sia giunto con un ritardo di almeno vent’anni, con una visione “trasversale“ della problematica sociale in quanto tale. Cioè, occuparsi del disagio (e della povertà, aggiungerei) oltre i limiti posti dalle bandiere ideologiche (se mai ancora ve ne fossero) e di fazione.

Ma, purtroppo, temo che questi vessilli vengano agitati affinché il loro drappeggio nasconda la pochezza degli interventi e la loro risibilità, soprattutto nel momento in cui si alzano le mani, o si fa spallucce, ma è la stessa cosa, per dire “non ci sono soldi”. Perché è proprio questo lo scoglio contro il quale si infrangono anche le migliori leggi e le altrettanto migliori intenzioni di amministratori ed operatori. Tanto si dovrebbe fare, tanto si vorrebbe e potrebbe fare, ma la graduale riduzione delle spese sociali viene sbandierata, letteralmente a destra e sinistra, per occultare, ancora una volta, la crisi di idee e la crisi della stessa concezione della persona umana, sempre più frequentemente ridotta a merce di scambio politico (si fa per dire) ed oggetto di polemiche che si attardano e attorcigliano su sé stesse non avvedendosi che i “bisognosi” aumentano giorno per giorno.

Ovviamente si tratta di scelte di fondo di non scarsa rilevanza. “Investire” sulla persona, per esempio un adolescente a rischio di devianza, significa non solo fare prevenzione nelle sue varie articolazioni, ma anche evitare che in futuro questa persona, cronicizzando il suo disagio, diventi tossicodipendente o detenuto o paziente psichiatrico, con “spese sociali” di almeno quattro volte superiori da sostenere e con scarse possibilità di riabilitazione piena. Pertanto, non solo prevenzione ma anche “prognosi” sociale.

La mia quotidiana esperienza professionale, da vent’anni a questa parte, pur registrando lievi miglioramenti nella complessiva qualità dei servizi sociali regionali, annota che i conti si devono fare con bilanci comunali, cioè con la realtà, sempre più risicati in questo settore. Oltre a determinare il blocco di alcune iniziative questa situazione determina un certo scadimento qualitativo. Di conseguenza, sempre più spesso, ci si nasconde, pur di dire che “qualcosa s’è fatto”, dietro il dito di interventi arrangiati, perché a basso costo, improvvisati e quasi mai verificati nella loro riuscita, dimenticando (o, in molti casi, non sapendolo affatto) che alcune opportunità sono state offerte. Per esempio, l’Unione Europea per anni ha finanziato iniziative specifiche e specialistiche, soprattutto in ordine alla prevenzione primaria e secondaria, che però in Puglia non sono state colte perché il livello richiesto della qualità, già in fase di progettazione, era molto alto. Ovvero queste possibilità, se attivate, sono state vanificate dalla stessa sottocultura di cui prima dicevo, questa volta, però, applicata alla “logica” del finanziamento fine a se stesso, cioè alla spartizione secondo le clientele del momento.

Una risposta, nonché una opportunità da non perdere, ritengo sia data dalla applicazione regionale della legge 328 che, è appena il caso di ricordare, non riguarda soltanto la riforma delle IPAB, purché si tengano presenti alcuni cardini, non già una banale ricetta, sui quali poggiare l’intero impianto: formazione, alta formazione ed aggiornamento continuo degli operatori; qualità, monitoraggio e verificabilità scientifica degli interventi; attenzione alla persona in situazione di disagio ed alla sua realtà mentale spesso non sufficientemente adeguata ed evoluta.

SALVIAMO I MINORI A RISCHIO DAL MALGOVERNO DELLA TUTELA

la Repubblica” del 4 aprile 2004

Ai progetti per il recupero di questi giovani troppo spesso prendono parte associazioni sulle quali non viene fatto alcun controllo sulla qualità delle prestazioni


La recente cronaca, veramente nera, parla di due adolescenti morti ammazzati per strada, la loro casa. Difficile dire qualcosa di sensato in questi drammatici passaggi e il rischio che siano sempre le stesse chiacchiere d’occasione è elevato. Si può dire però che il “minore a rischio” vive una condizione, psicologica e sociale, nella quale può rischiare (nel senso di correre deir ischi) o può agire dei comportamenti a ischio (cioè dannosi per sé e per gli altri).

Questo secondo aspetto, è più presente nella tpologia dei minori già ricoverati, o meno, presso istituti educativo-assistenziali o comunità penali ed è, potenzialmente, cronicizzabile e ad evoluzione psicopatologica senza per questo escludere il piano politico, sociale e culturale.

Oggi non è più utile pensare a interventi a favore dei minori dl tipo “a pioggia” o “a progetto”. Se di progetto sid eve parlare, sarebbe bene farlo tenendo presenti i piani coinvolti (sociale, psicologico, culturale e politico) e, soprattutto, operare accurati controlli della qualità delle prestazioni e dei risultati. Al contrario, accade che attingono ai fondi (in verità sempre più striminziti) riservati alla prevenzione del disagio minorile, una pletora di associazioni, cooperative ed enti di vario genere sui quali non viene esercitato un vero e proprio controllo di qualità e ai quali non è richiesto, a conclusione dell’intervento, alcun riscontro del risultato. Diretta conseguenza di ciò è, pertanto, la partecipazione a gare d’appalto o incarichi diretti, molto spesso di misera natura clientelare. Ma qui non si sta parlando della manutenzione dei lampioni sulle strade comunali, bensì di persone. Già, perché questi ragazzi, doppiamente uccisi, una prima volta dalla loro storia, sociale e familiare e una seconda dai proiettili di una pistola, sono persone.

L’aspetto politico più immediato riguarda i continui tagli alla spesa sociale, Certo, tra non molto dovrebbero partire i “piani di zona”, ma con quali garanzie che non saranno perpetuati i comportamenti spartitori di sempre? Nessuna. Con quali garanzie che saranno immessi in organico, presso i Comuni e le Ausl, nuovi assistenti sociali ed educatori? Nessuna. L’aspetto giudiziario minorile, infine, parla da sé: in Puglia ci sono tre Tribunali per i Minorenni (Bari, Lecce e Taranto), che operano tra mille difficoltà e spesso retti dalla buona volontà dei singoli. Tre tribunali non sono pochi, ma neppure molti se si pensa alla realtà sociale e culturale di Brindisi, che è sotto la giurisdizione del Tribunale di Lecce, e Foggia, che è sotto quella di Bari. Un maggiore decentramento, che aderirebbe meglio alal realtà locale, e una migliore distribuzione delle risorse umane e finanziarie potrebbero determinare politiche giudiziarie più efficaci.

In Puglia è emergenza minori a rischio da almeno quindici anni e in un periodo di tempo così lungo se qualcosa di serio fosse stato fatto non saremmo qui a piangere queste giovani vittime.