giovedì 10 maggio 2007

INVIATO A "LA REPUBBLICA"

Inviato a “la Repubblica” il 15 aprile 2007 e non pubblicato

di Bruno Marchi

In tante città italiane, anche pugliesi, sono in aumento i comportamenti suicidari tra gli adolescenti, così come gli episodi che denunciano la loro aumentata fragilità, compresi gli atti del cosiddetto bullismo. Gli interrogativi e le, seppur parziali, risposte che si possono articolare sono tra i più vari. Molto è stato detto e molto si dirà, e ciò non assicura che contribuirà ad una riduzione del fenomeno. Eppure bisogna parlarne per occuparsene, bisogna comprendere per cambiare.

Il piano di riflessione, pertanto, non può che essere il punto di incontro tra aspetti sociali (per cui, anche economici e culturali) e psicologici (per cui, anche psicopatologici).

Pare si sia persa la capacità contenitiva e, in fondo, regolativa della crescita degli adolescenti: ecco, tra le tante, quale potrebbe essere una causa della fragilità emotiva dei nostri ragazzi.

Nel passato le istituzioni (lo Stato, la scuola, la famiglia e la Chiesa) erano salde nella loro proposta normativa. Erano ben sintonizzate tra loro nella proposta educativa, per cui l’adolescente che “deviava” dal percorso tracciato dagli adulti, poteva essere rimesso in carreggiata, a volte anche attraverso sanzioni. Non c’era discrasia tra un’istituzione e l’altra nel considerare la giustezza dell’eventuale provvedimento adottato. Qualche piccolo esempio. Quando le strade erano piene di bambini che giocavano al calcio, la grande paura, soprattutto del suo proprietario, era che si trovasse a passare un vigile, o un carabiniere, e sequestrasse il pallone, perché non si poteva giocare per strada, magari scattava anche una multa. Oppure, durante l’estate c’era la cosiddetta “controra”, cioè quella fascia pomeridiana della giornata nella quale non si poteva stare per strada a giocare e schiamazzare perché la maggior parte delle persone riposava. Anche qui i contravventori potevano essere sanzionati. Infine, il ragazzino mandato a bottega durante l’estate perché impegnasse il tempo ad imparare qualcosa di utile a volte era sgridato, ma non solo, dal maestro artigiano. Qualora si fosse recato dal padre a chiedere giustizia, nella maggior parte dei casi riceveva il resto perché il genitore incondizionatamente, di solito, dava ragione al maestro. E così nei confronti della scuola e di chi altri si occupava dei figli. Ovviamente questa non è un’apologia della sanzione, ciò che intendo dire riguarda la possibilità che tale atteggiamento da parte degli adulti offriva all’adolescente il disegno di una cornice, di alcuni limiti, che lo aiutavano ad orientarsi meglio nella realtà sociale che cominciava ad affrontare emotivamente più saldo, perché saldi erano i modelli di riferimento.. La solidarietà tra adulti, inoltre, consentiva ai bambini e agli adolescenti di introiettare modelli di comportamento sociale omogenei tra loro, in quanto i messaggi non erano contraddittori. Esistevano, comunque, anche le figure educative consolatorie e tolleranti (in genere le madri o altre donne della famiglia) che garantivano al bambino o al ragazzo la riparazione emotiva o l’elaborazione della frustrazione.

Oggi, invece, tra bulli e pupe televisive e reali, tra genitori che picchiano insegnanti per un cellulare, tra omofobie e sessualità spesso solo apparentemente ben definita, tra concorsi per fare la velina o per essere eletta miss di quartiere, il patto tra famiglia e realtà sociale si è frantumato. Ogni istituzione ha i suoi bei problemi ed in questo loro lento e inesorabile sfaldamento, per evitare il quale la soluzione pare essere quella di erigere muri ideologici o provvedimenti d’urgenza, agli ultimi posti viene relegato ciò che, probabilmente, alle ragazze e ai ragazzi servirebbe davvero: l’ascolto.

La mia sensazione è che ascoltiamo molto poco gli adolescenti, diamo alle loro esigenze emotive troppo poco spazio. Anche quando ciò dovrebbe essere una funzione istituzionale, accade che l’ascolto sia offerto in condizioni di fortuna (basti pensare alla sede del Tribunale per i Minorenni di Bari) o insufficienti (mi riferisco al fin troppo scarso numero di psicologi impegnati nelle scuole). Ascoltare davvero gli adolescenti significherebbe mettere in moto una dinamica di crescita non più legata ai modelli educativi del passato, che ormai e, in parte per fortuna, non ci sono più, bensì al diritto di ogni ragazzo di trovare una salda cornice affettiva di riferimento con la quale confrontarsi.

STRAGI DEL SABATO SERA E POLITICA di Bruno Marchi

Pubblicato su FasanForum


Le stragi di giovani che si consumano il sabato sera e la politica italiana, quale legame potranno mai avere? Non mi riferirò a considerazioni relative ai tentativi, o alle inadempienze, delle istituzioni, finalizzate a limitare o, meglio, evitare questa tragedia. Nemmeno alle campagne di sensibilizzazione che invitano, soprattutto i giovani, alla prudenza sulla strada e neanche alla educazione stradale che, in un modo o nell’altro, nelle scuole si propone. Le mie considerazioni riguardano il rapporto culturale e generazionale tra i giovani e i tanti politici anziani che affollano i banchi delle istituzioni repubblicane.

Occorre una premessa. Il comportamento di rischio (nel senso di correre il rischio) è tipicamente adolescenziale. Per molti ragazzi e ragazze, i cambiamenti psichici e corporei, caratteristici dell’età, sono interiormente e, spesso, inconsapevolmente vissuti con un senso di frammentazione emotiva. Certo, questa frammentazione, più vicina alle culture occidentali, è temporanea ed è finalizzata ad un successivo passaggio verso una unitarietà, verso una ricomposizione, si può anche dire, della personalità che darà luogo, soprattutto, ad una “nuova” identità, quella adulta. In questo frangente della vita, che tutti attraversano, la tempestosità e gli impeti, siano essi ideali o agiti, diventano il luogo entro il quale l’adolescente si muove alla ricerca di una identità e interezza. Da qui, in assenza di punti di riferimento forti, che diano senso e contengano il “Sé” frammentato, la quasi necessità di assumere stili di vita (dalla droga all’alta velocità) che facciano sentire vivi e interi. Evidentemente, tale processo oggi è massicciamente influenzato dalle sollecitazioni culturali che impongono modelli comportamentali spesso anticipatari rispetto alla reale evoluzione psichica, fisica e sociale, per cui sempre più frequentemente si osservano, in dodicenni o tredicenni, comportamenti che, magari qualche anno fa, appartenevano più a ragazzi e ragazze più avanti con gli anni. A ciò concorrono, rispetto al passato, una serie di fattori quali le maggiori stimolazioni che i bambini ricevono o una migliore alimentazione, per cui il sistema nervoso, nella sua plasticità, all’apparenza sembra crescere un po’ più in fretta.

D’altro canto, la dimensione adolescenziale - non più fisica, evidentemente, bensì soprattutto sociale e, in più di un caso, psichica - si prolunga fino ai venticinque anni e oltre, per arrivare, non è raro, alla soglia dei trenta. Ciò è determinato, soprattutto, da fattori economici e sociali che provocano una dipendenza oggettiva dal nucleo familiare e una altrettanto oggettiva difficoltà a lasciare il nido. Da qui la “novità” di ritrovarsi tra le lamiere delle auto carbonizzate giovani/adolescenti tra i venti e i trenta anni di età.

Tra i fattori di “ritardo evolutivo” aggiungerei, quasi fosse una postilla e venendo al dunque di questo contributo, lo spostamento in avanti dell’età dei politici italiani e la loro inamovibilità dagli incarichi istituzionali che, oltre a impedire l’affermarsi dei quarantenni e dei cinquantenni, che senz’altro apporterebbe una boccata d’aria fresca, inavvertitamente lanciano ai più giovani un messaggio piuttosto chiaro di cristallizzazione di segno contrario a quello di un fisiologico e salutare avvicendamento generazionale. Ciò non solo sul piano istituzionale e politico, ma anche su quello culturale ed economico nonché, più in generale, antropologico. Insomma, questa abbondanza di “nonni”, che fa piacere vedere ancora attivi e non esclusi dai momenti forti della vita (basti pensare al senatore a vita Andreotti che, a quasi novanta anni, ha contribuito a causare l’ultima crisi di governo), a mio avviso determina un irrigidimento delle posizioni e fornisce una sorta di alibi, culturale e sociale, di una presunta eterna, immobile, giovinezza. Largo ai giovani, dunque? Sì, ma senza demagogia e includendo l’anziano con il suo contributo d’esperienza e saggezza.

INVIATO A "LA REPUBBLICA"

Inviato a “la Repubblica” il 3 gennaio 2007 e non pubblicato



di Bruno Marchi

Giocare a “guardie e ladri” e morirci, questo no! Un bambino è morto, ha lasciato lì, sull’asfalto di un’arida periferia, sempre più lontana dalle luci del centro, una vita appena accennata, quella che è riuscito a godere in tredici anni.

La caccia alle streghe delle responsabilità, il mea culpa, la ricerca di cause e le analisi danno il voltastomaco soltanto a leggerle, uguali tra loro già prima di Enziteto e Giovinazzo. La loro inutilità è amplificata dall’assistente sociale morto accoltellato dal minorenne che aveva in affidamento o da tutti quegli operatori che quotidianamente, pur non rischiando la vita, sono esposti ad elevati tassi di sofferenza sociale e psichica senza alcuna protezione.

Cos’ha di credibile la chiamata a correo delle varie istituzioni, dallo Stato al Comune o alla Regione, dalla Chiesa all’Università, se i bambini continuano a morire per strada o stritolati dall’indifferenza e dal vuoto di cultura per l’infanzia e l’adolescenza? A cosa aggrapparci, noi adulti, per tentare di alleggerire il fardello della colpa di avere realizzato una scuola sempre più svuotata di contenuti e punti di riferimento o una società televisiva fatta di lustrini e miraggi pubblicitari?

La povertà dei quartieri è celata allo sguardo mediatico perché infastidisce, perché convoca a riflessioni urgenti alle quali, comunque, si è costretti quando, come si dice, balza agli onori delle cronache. Ma poi tutto passa, c’è la festa e le nostre città diventano le capitali nazionali del divertentismo, per la gioia degli spacciatori di alcol anche ai minorenni, notizie di questi giorni.

Lo sforzo di essere onesto, compiuto da ogni bambino nato in taluni quartieri, è sovrumano perché continuamente vanificato dalla seduzione di certi modelli ai quali sente di dovere aderire per sopravvivere. Il Ministro dell’Interno Giuliano Amato recentemente ha indicato nelle canzoni napoletane, dei cosiddetti cantanti neomelodici, uno dei canali di diffusione della cultura camorristica. Se questo fosse un parametro, dovremmo anche noi interrogarci su quanta “musica napoletana” si consuma al San Paolo di Bari o al Paolo VI di Taranto o, ancora, al Paradiso di Brindisi.

Io, più semplicemente, credo che la cultura dell’illegalità si diffonda anche perché non trova alcun argine, nessun ostacolo. Perché, fino a quando i bambini e gli adolescenti saranno costretti a fagocitare la sub-cultura televisiva o quella dell’arrivismo, il modello camorristico o mafioso sarà sempre più forte, verosimile e, soprattutto, più vicino ai suoi fruitori. Ma non è assolutamente detto che agli stessi ragazzi piaccia. Tempo fa, colloquiando con un sedicenne, autore di rapina a mano armata, incautamente chiesi perché frequentasse certe amicizie. Mi guardò esterrefatto, giustamente, e mi rispose che lui poteva avere solo quel genere di amici ma non è che ne fosse fiero.

Il furto, la rapina o la violenza, dunque sono segnali d’angoscia, grida che si strozzano in gola, mentre il motorino va a tutta velocità per la città. Sono pesanti denunce politiche che fanno, storicamente, il paio con altre urla che tanti anni fa altri ragazzi hanno scandito nei cortei, convinti com’erano che avrebbero cambiato le cose. Quegli stessi ex-ragazzi che oggi governano, ma che afflitti da miopia politica non riescono a mettere a fuoco il bambino o il ragazzo di periferia, convinti come sono che il problema e la soluzione siano soltanto strutturali e di fondi che mancano. Io credo che in politica in generale e nelle politiche per i minori in particolare, quello che scarseggia sono l’entusiasmo e il guizzo “rivoluzionario” (si può ancora dire?) perché si sono infranti contro la gestione burocratica della cosa pubblica e appiattiti in una ordinaria amministrazione dell’emergenza.

BULLISMO ED EMULAZIONE di Bruno Marchi

“il Menante” del 7 dicembre 2006

Minori a rischio. L’opinione di Bruno Marchi.


Una volta c'era Pierino. Ve li ricordate i film con Alvaro Vitali che passava le giornate a fare scherzi, non sempre innocenti in realtà, ai propri compagni di classe e ai professori? Le professoresse poi erano le sue vittime preferite. Quanti di noi non hanno in mente l'immagine di Pierino che spiava dal buco

della serratura la ignara e provocante maestrina mentre si denudava. Certo erano altri tempi, oggi il buon vecchio Pierino è stato sostituito dall' “isola dei famosi” piuttosto che da “la pupa e il secchione”, programmi televisivi che si fondano sul voyeurismo e sulla ipocrita irrisione del più debole, del diverso.

Erano altri tempi quando colui che irrideva i compagni lo faceva con innocenza, forse anche con un po' di volgarità ma comunque in maniera genuina, quando il bullo era Alvaro Vitali: basso, brutto e pure sfigato. Oggi i bulli spesso sono i fighetti, quelli che una volta si chiamavano “figli di papà”, ragazzi

tanto annoiati che trovano esaltante filmare per poi diffondere sulla rete le immagini di una violenza su un disabile piuttosto che su una propria compagna di classe. Ma se gli scherzi a scuola sono sempre esistiti, e ciascuno di noi ne è stato artefice, spettatore o vittima almeno una volta nella propria vita, allora perché sembra che il problema sia nato solo ora. Per capirci di più abbiamo incontrato Bruno Marchi, psicologo che da anni si occupa di minori a rischio.

Il fenomeno chiamato bullismo non sarà per caso un'invenzione mediatica?

“Certamente i giornali e le televisioni se ne stanno occupando tanto quanto si sono occupati dell'aviaria, di cui oggi non sentiamo più parlare. E' un modo per riempire le prime pagine dei giornali ed i dibattiti televisivi. Di fatto però il bullismo c'è anche se non è un problema legato a questi ultimi anni. In Italia il fenomeno della goliardia è sempre esistito sia nelle università che nei licei, soltanto negli anni '70 le divisioni politiche hanno preso il posto degli scherzi goliardici, ma negli anni successivi le cose sono tornate pressappoco come prima. Credo che siano fondamentalmente due le cose che cambiano tra la vecchia forma di bullismo e quella a cui assistiamo oggi: innanzitutto la qualità degli scherzi, perché spesso quelli che arrivano agli onori della cronaca sono scherzi parecchio violenti avendo spesso come vittime soggetti svantaggiati, in secondo luogo il fatto che questi atti, grazie ai nuovi mezzi come i videofonini ed Internet, vengono divulgati fuori dalla scuola, mentre una volta rimanevano circoscritti nell'ambito scolastico. Oggi quegli scherzi vengono filmati ed immessi sulla rete, in modo che chiunque in qualsiasi parte del mondo li potrà vedere. Il problema è che una volta entrati nei programmi di condivisione file diventa impossibile ritirarli, ma qui si apre una problematica ampia, legata alla privacy, che riguarda soltanto in parte gli ultimi fatti di cronaca. Credo quindi, ritornando alla domanda, che in fin dei conti i casi del cosiddetto bullismo di cui oggi si parla siano stati amplificati dai

media, ed in questo senso credo che il rischio maggiore che si possa correre sia quello dell'emulazione, così com' è accaduto con il fenomeno dei sassi dal cavalcavia.”

A conti fatti quindi le nuove forme di bullismo hanno compiuto un salto di qualità verso comportamenti sempre più violenti che spesso travalicano ogni limite etico; non ci si diverte più semplicemente, come faceva Pierino, oggi si mira ad umiliare profondamente l'altro fino ad annientarlo.

Loredana Monopoli

MORTI DI HINA E PALMINA, UN ERRORE ACCOMUNARLE di Bruno Marchi

la Repubblica” del 1 settembre 2006

Anche la Maraini è incorsa nei soliti pregiudizi sul Sud, come avvenne all’epoca dell’omicidio della quattordicenne

Sul Corriere della Sera, del 15 agosto scorso è possibile leggere un articolo che titola “La ragazza pachistana e l’abitudine globale di perseguitare le donne”, a firma di Dacia Maraini. L’occhiello recita: “Orrori come quello di Brescia non sono esclusiva del mondo musulmano”. Si tratta di un commento a proposito dell’omicidio della giovane Hina in quel di Brescia. Il testo sviluppa un ragionamento, condivisibile, riguardante l’oppressione che molte donne, in varie parti del mondo, ancora subiscono a causa di motivi religiosi, ma non solo, con particolare riferimento alle donne musulmane. Ad un certo punto l’articolo vira sulla situazione occidentale e italiana. Cosa trova di meglio la signora Maraini, intellettuale toscana ma da anni residente a Roma, se non andare a ripescare nella sua memoria femminista il caso di Palmina Martinelli, la quattordicenne bruciata viva a Fasano di Brindisi perché, così è stato acclarato dalle indagini della magistratura, rifiutava di prostituirsi?

L’articolo prosegue con un vago accenno al delitto d’onore e con le rituali conclusioni, vagamente politicizzate.

Il perché di questo mio intervento sta tutto nella seguente perplessità: ma dal 1981, cioè in venticinque anni, in tutta Italia – considerato che la nota intellettuale teneva a questo confronto tra Islam e Occidente – davvero non si è verificato alcun fatto di cronaca nera utile alle sue argomentazioni?

Chi scrive - proprio dalla città della ragazza arsa viva - già all’epoca pubblicamente denunciò le deformazioni che i mass-media avevano operato in ragione dei soliti luoghi comuni e pregiudizi sul meridione. Ricordo, per esempio, che i servizi dei telegiornali RAI furono montati in maniera tale che della piazza di Fasano si vedesse solo lo scorcio laddove campeggiava il cartellone di un cinema a luci rosse, colpevolmente omettendo i cartelloni di altre tre sale teatrali e cinematografiche (sì, ce n’erano ben quattro, in un’epoca in cui nei paesi del comprensorio non ve n’era nemmeno una). Non fu detto che le sale cinematografiche trasmettevano film “d’essai” ed erano allestite dignitosissime stagioni teatrali a prezzi modici, così come fu taciuto che la Biblioteca Comunale contava su un catalogo di migliaia di volumi, e l’elenco potrebbe continuare.

Mi chiedo, perché andare a ripescare un fatto di cronaca risalente a un quarto di secolo fa quando, nel frattempo, purtroppo, altrettanto efferati delitti, in tutta Italia hanno visto vittime delle donne? Mi sembra che anche l’intellettuale di turno (e nel giorno di Ferragosto, si sa, è pure un po’ fastidioso essere di turno) abbia peccato in superficialità e fretta, o forse sia stata presa da una sorta di distorsione antropologica, tanto quanto capitò a giornali e televisioni, interessati com’erano a fornire un conciliante quadretto farcito di pericolose generalizzazioni e pregiudizi, del tipo mafia e spaghetti.

Certo, a Fasano i problemi all’epoca non mancavano e tuttora non mancano, lo testimoniano anche le relazioni della Commissione Antimafia di qualche anno fa. Ma da qui a lanciare la sottile idea che la città possa essere paragonata a zone del mondo molto più povere e sfortunate, nonché culturalmente differenti sebbene, naturalmente, con pari dignità e importanza, ce ne corre. Il Sud dell’Italia non è l’Islam e l’Islam non è il Sud, perché creare confusione?

Interventi come quello della signora Maraini paiono testimoniare una ancora scarsa integrazione culturale tra Nord e Sud del Paese, e allora come mai potrà essere condotta la già difficile integrazione con le altre culture che stanno avvicinandosi a noi?

MANDIAMO I GENITORI A LEZIONE DI LEGALITÀ di Bruno Marchi


la Repubblica” del 22 novembre 2006

Se dinanzi al bullismo è evidente il fallimento della scuola, bisogno ripensare soluzioni per educare al rispetto del valore e delle leggi.

Le vicende che in queste ultime settimane vedono coinvolti adolescenti, a volte minorenni e a volte no, in azioni violente, dal cosiddetto bullismo a scuola alle esecuzioni di stampo mafioso, ci convocano ad una riflessione attenta e pacata.

La politica, nei suoi modi e tempi, tenta di arginare quello che sembra ormai essere un dilagare, non solo in Italia, di atteggiamenti e comportamenti troppo spesso ritenuti inspiegabili o, altrettanto spesso, sommariamente spiegati da psicologismi e sociologismi a buon mercato, utili a riempire una colonna di giornale o a occupare un paio di minuti in televisione.

A mio avviso di adolescenti e giovani che delinquono o che si rendono protagonisti di atti di sopraffazione e prepotenza se ne è parlato anche troppo, ma probabilmente male ed affidandosi a ricette preconfezionate. Credo che uno dei cuori del problema sia quello più strettamente trans-generazionale, nella misura in cui il passaggio, antropologico e psicologico, da una generazione all’altra, di una cultura violenta, non tanto nei comportamenti manifesti bensì in quelli paludati sotto forma di competitività, arrivismo, affermazione personale, rampatismo, e chi ne ha più ne metta, sia un ineludibile asse di considerazione.

A questo proposito basti pensare ai notevoli danni che la scuola, suo malgrado e malgrado l’onesta buona volontà della maggior parte degli insegnanti, ha cagionato con quella sorta di aziendalizzazione degli apprendimenti, un mercato delle vacche, che è la riforma cosiddetta Moratti.

Ma il male di vivere (o il vivere male) di questi nostri malandati tempi riguarda, ovviamente, anche un altro centro vitale della nostra esistenza: la famiglia. Anche lì, sempre più spesso, si assiste alla perdita del timone, alla difficoltà a tenere dritta la barra lungo un percorso che è sicuramente irto di scogli e di sforzi per superarli. Anche lì si cade facilmente preda dei vizi appena elencati, dalla competitività al rampantismo, con la scusa che i figli “so’ piezz’ e core” e che, pertanto, sono da proteggere a tutti i costi con il ragionevole dubbio che questi costi, a volte, siano inaccettabili compromessi sicuramente non richiesti dai giovani.

L’imbarazzo, in questo momento, è pressoché totale perché il rischio di cadere (o di essere già caduto) nello psicologismo e nel sociologismo a buon mercato è elevato. Pertanto, avanzo un’idea che, se realizzata, potrebbe affiancare le iniziative che si stanno per intraprendere a livello nazionale e locale.

Si tratterebbe di realizzare una scuola vera e propria per madri promotrici di eticità e legalità . Questo nella considerazione che i messaggi formativi più efficaci sono in grado di trasmetterli proprio le donne ai loro figli. Il legame che si concretizza tra madre e figlio è inscindibile e saldo, l’attaccamento che ne deriva potrebbe essere una risorsa di rilancio della convivenza civile e democratica da non trascurare, a mio avviso, oltre che il mezzo principale che consente un sano sviluppo psichico al bambino. Senza precipitare nel “mammismo”, ritengo sia importante che le madri, soprattutto coloro che non hanno avuto relative occasioni di studiare e crescere in un contesto culturalmente valido, siano informate e formate all’etica e alla legalità, convinto come sono che la loro crescita culturale, generale e specifica, possa avere una ricaduta positiva sullo sviluppo psicologico e sociale dei figli.

Del resto la centralità della donna nella nostra società, il suo modo di vedere e pensare alle cose, anche in politica e nell’economia, è un dato di fatto diffuso e imprescindibile che dovrebbe essere ancor più esaltato e valorizzato come focus di un serio intervento psicosociale di comunità.

NOI DIVERSAMENTE ABILI VITTIME DELLA DEMAGOGIA di Bruno Marchi

la Repubblica” del 28 febbraio 2006

La decisione della Regione di dedicare un inno ai portatori di handicap è retorica e non può eludere ben altri problemi


Sono un “diversamente abile” (anche se fino a non molto tempo fa ero sicuro di essere un uomo). Cosa succede? La demagogia e la retorica si sono impossessate anche di chi ho votato alle ultime elezioni regionali, sin dalle primarie?

Con vivo sconcerto leggo che il 9 febbraio scorso la Regione Puglia, con una legge (la numero 3) ha aggiunto un comma (1bis) alla Legge Regionale del 1 dicembre 2003 n. 24 “Istituzione della giornata regionale del diversamente abile”. C’è scritto: “La Regione adotta l’inno ai diversamente abili di cui all’allegato 1 della presente legge e ne promuove la diffusione su tutto il territorio regionale.” Segue uno spartito musicale con tanto di testo (è pur sempre un inno!) il cui titolo è “Il centro del sorriso”.

Non ho idea di come sia la resa musicale (non so leggere la musica) e le poche parole vergate a mano lasciano intendere una certa tronfia retorica. Ma poco importa perché non è certo una recensione che voglio fare.

Non so chi sia l’autore e nemmeno da cosa origini questa discutibile iniziativa che va ad integrare l’altra, pure discutibile, iniziativa relativa alla istituzione della “giornata regionale del diversamente abile”. E’ probabile che sia un concorso o qualcosa del genere, ma poco importa anche questo aspetto perché di certo non sono qui per stigmatizzare la creatività e l’impegno di alcuni.

Ciò che mi preme comunicare è che credo sia necessario mettere da parte demagogia e retorica per andare alla sostanza dei problemi e, con riguardo a chi ha problemi fisici e/o psichici, alla sostanza delle difficoltà quotidiane che, molto spesso, generano discriminazione, sofferenza e reale diversità. Un esempio valga per tutti.

Non molto tempo fa, si era ancora nell’era Fitto, ho avuto modo di partecipare – per motivi professionali e in rappresentanza del Terzo Settore – ad un gruppo di lavoro in Regione che, sic (!), organizzava proprio la “Giornata Regionale del Diversamente Abile”. Già in quella sede segnalai che nei pressi del palazzo della Presidenza Regionale (per intenderci, quello sul Lungomare), laddove si svolgevano le riunioni, non c’era un parcheggio riservato a portatori di handicap. La volta successiva, ironia della sorte, mi multarono per divieto di sosta, non sapevo dove parcheggiare e il primo posto utile era davvero lontano. Ma non finisce qui.

Le riunioni si svolgevano in una saletta, nei pressi dell’ufficio del Presidente, in cima ad una erta scala che non aveva l’ombra di un corrimano. A dir poco tragicomico (visto il tema della riunione) per quelli che, in carrozzella o con difficoltà deambulatorie, tra i quali l’onorevole Antonio Guidi, dovevano arrampicarsi su per gli alti gradini. La settimana successiva ho personalmente vissuto una diaspora per i corridoi del Palazzo della Presidenza Regionale perché, dovendo raggiungere una certa sala, dove nel frattempo erano state dirottate le riunioni, ho dovuto mettere in allarme il personale della sicurezza e gli impiegati mendicando una chiave per avere accesso ad un banalissimo ascensore. Tra me e questa sala c’era uno scalone in marmo bianco, anche questo senza uno straccio di passamano.

E allora, di cosa stiamo parlando? Di problemi reali (quali sono le barriere architettoniche tuttora dominanti negli uffici pubblici o di pubblica utilità come, per esempio, le banche) o di canzoni e disegnini a tema per far felici (?) i “diversamente abili”, dando loro occasionali dolcetti farciti di demagogia e retorica? Non sarebbe meglio rimboccarsi le maniche e lavorare in silenzio piuttosto che, addirittura, cantare?

Un ultima cortesia, chiunque canterà quell’inno non lo faccia anche in mio nome. Grazie.